Non c'è dubbio.
Tra i primi compiti che ci lascia la
pandemia c'è
quello di ricostruire un rapporto positivo con
una natura offesa e violata dall'uomo. Tutelare l'ambiente, proteggere la biodiversità, fronteggiare la
crisi climatica. Ciò detto, non tutto
è risolto. Intanto - è una costatazione ovvia - anche i virus, come gli
uragani e i terremoti, fanno parte
della natura. Ma soprattutto il significato di questa passa pur sempre
per l'interpretazione dell'uomo.
Che non è stata sempre la stessa.
Anzi nulla come l'idea di natura ha
avuto, nel corso della storia, uno
statuto ambivalente. Da un lato la
concezione dei diritti naturali, poi
diventati diritti umani, ha significato uguaglianza di condizione contro ogni pregiudizio etnico e razziale. Dall'altro la nozione di natura è
stata usata per legittimare il potere
religioso, e anche politico, tramite
la repressione di ciò che è stato definito per secoli "contro natura".
Questo groviglio di problemi è
l'oggetto di un libro prezioso, proprio perché apparentemente inattuale, intitolato L'istituzione della
natura, edito da Quodlibet per la cura e con una postfazione di Michele
Spanò. Esso è composto di due saggi, convergenti sul medesimo tema, del grande storico del diritto romano, di recente scomparso, Yan
Thomas e dello studioso di storia
medioevale Jacques Chiffoleau. Il
primo esamina il rapporto tra diritto civile e natura nella Roma antica. Diversamente da quanto tramandato dalla tradizione stoica e
ciceroniana, i giuristi romani non
considerano la natura fonte di diritto. Ciò vuol dire che quello che è
contrario alla natura, come ad
esempio la schiavitù, non è perciò
considerato illegittimo. La natura
può costituire un ostacolo fisico, o
biologico - per esempio un padre
non può essere più giovane del figlio o una donna partorire insieme
dieci gemelli - ma non un vincolo legale o morale. L'incesto è un crimine rispetto alla consuetudine e alla
legge, ma non un atto contro natura. Le istituzioni giuridiche romane
non devono conformarsi a un ordine trascendente come quello naturale. Al contrario, il diritto può adoperare il concetto di natura per i
propri scopi, come emancipare un
uomo nato schiavo o sottrarre alcuni beni, definiti "comuni", all'appropriazione da parte dei privati.
Tutto cambia col passaggio alla
stagione medioevale, pervasa di
teologia cristiana. E allora che si afferma l'esistenza di pratiche contro natura. Il passaggio di paradigma, rispetto al mondo romano, è determinato dal presupposto che a
creare la natura sia stato Dio, E che
dunque essa non fa che tradurre,
nella vita umana, i suoi voleri. Fin
dal periodo finale dell'impero romano, quando ormai il cristianesimo diventa religione di Stato, gli atti contro natura - a partire dalla sodomia - cominciano a occupare un
posto di rilievo nelle legislazioni penali. Indagati, condannati e puniti
con rara ferocia che si protrarrà fino ai roghi della Santa Inquisizione.
Naturalmente l'interdetto non si
limita alle pratiche sessuali ritenute innaturali, ma investe l'intero
ambito della fede - con accuse di
idolatria ed eresia, il tutto in difesa
di una natura identificata col suo
Creatore. In causa, in questa crociata a favore di una natura santificata, non è solo l'onnipotenza divina,
ma anche il potere del sovrano. È
l'ordine naturale che legittima la
successione dinastica al trono e
l'obbedienza dei sudditi, come anche l'ostilità ad eretici, ebrei, musulmani.
Certo, a partire dal XVI secolo, il
diritto naturale frena lo sviluppo
dell'assolutismo, definendo limiti
che neanche il sovrano può varcare. Ma nel complesso il paradigma
di natura svolge un ruolo di conservazione. Tanto da giustificare l'esclamazione di Nietzsche ne La gaia scienza: «Quando finiremo di
star circospetti e in guardia? Quando avremo del tutto sdivinizzato la
natura!».
E allora? Per riprendere le considerazioni iniziali, come comportarci oggi nei confronti della natura? E
che rapporto essa istituisce col diritto? Da tempo la sensibilità ecologica - la critica alla centralità
dell'uomo nell'universo - ci impone un nuovo atteggiamento verso
la natura. Ma il libro di Thomas e
Chiffoleau ci invita a diffidare di un
integralismo naturalistico speculare all'integralismo antropologico. Il
diritto della natura al rispetto non
si afferma attribuendo personalità
giuridica a fiumi e monti, come pure è accaduto, ma al contrario integrando uomo e natura all'interno
della stessa forma di vita.
Come la filosofia contemporanea ha da tempo iniziato a fare, si
tratta di rompere la relazione esclusiva tra diritto e persona, includendo nella protezione giuridica ecosisterni, ambienti vitali, soggetti collettivi finora non considerati soggetti di diritto. Naturalmente senza
abbassare la guardia sui diritti individuali, ma ricollocandoli all'interno di una rete di relazioni naturali
e sociali.