Le parole sono le cose: il design
ha costruito il lessico della nostra società, per lo meno dalla
nascita del Bauhaus nel 1919 fino
a oggi. Nei prossimi anni, in relazione anche alla pandemia di cui non
conosciamo ancora la parabola, il suo
ruolo sarà determinante perché gli oggetti si porranno sempre di più al centro
dell'attenzione, non solo per la loro funzione pratica ma in particolar modo per
la portata simbolica e rituale. Basti pensare, ad esempio, alla mascherina, oggi
parte indissolubile del nostro modo di
relazionarci con gli altri, certamente una
difesa fondamentale nei riguardi del
contagio ma, nello stesso tempo, un'interfaccia per comunicare al mondo «chi
siamo». Di questo, ma non solo, parla il
nuovo libro di Emanuele Quinz, studioso
italiano di formazione filosofica che da
anni insegna e lavora in Francia: Contro
l'oggetto. Conversazioni sul design.
Che cosa significa design rispetto alla
capacità di definire un campo d'azione e,
di conseguenza, le «cose» che fanno parte di questo concetto? Quinz affronta in
modo intelligente ed esaustivo il tema,
perché partendo da una serie di modelli
teorici, dialogando con alcuni dei protagonisti internazionali, presenta una
mappa polivalente di definizioni, senza
sposarne una in particolare, mettendo
così in evidenza una delle caratteristiche
fondative di questa disciplina: il design è
il linguaggio della differenza per eccellenza della società contemporanea, capace di disegnare e raccontare il mondo
materiale attraverso approcci che hanno,
appunto, nella varietà e non nell'identità,
il loro ultimo significato.
Il libro presenta una serie di dialoghi, tra
i quali al centro è il contributo di alcuni
italiani, Giovanni Anceschi, Ugo La Pietra, Gianni Pettena, Clino Trini Castelli,
Elio Caccavalle, Martino Gamper (presenti e citate da tutti, le figure di Gillo
Dorfles, Ettore Sottsass e Tomàs Maldonado) insieme a designer e studiosi come, tra gli altri, i fratelli Bouroullec, Pierre Chapin, Matali Crasset e il fondatore di
DrogDesign, Gijs Bakker. Giustamente
Quinz, nell'introduzione, cita una famosa affermazione di Dorfles del '63, quando scrive che le definizioni sono sempre
assiomatiche, per cui è meglio non darne
alcuna «lasciando che il lettore si venga
formando da sé il concetto più idoneo e
più rispondente alla realtà dei fatti».
Ecco, si può credere che qui esista la
chiave di un atteggiamento interpretativo
in relazione all'andamento di questa disciplina, sempre sospesa tra l'intenzione
progettuale da un lato e, dall'altro lato,
ciò che Dorfles definisce con il termine
«la realtà dei fatti», ovvero il sistema della produzione seriale, senza la quale l'intenzione non è in grado di trasformarsi
in fatto. Il design ha sempre bisogno del
termine «industriale», altrimenti non è
altro che una pratica autoreferenziale, capace di parlare solo a sé stessa. I fatti che
interessano a noi sono gli oggetti degli
uomini, che non sono mai dati una volta
per sempre ma mutano nel tempo dialogando con le tecnologie, i vecchi e nuovi
materiali, le nuove discipline che si affacciano nella scienza, dalla semiologia alle
neuroscienze, dai linguaggi digitali al
problema che stiamo vivendo: un virus
che ci impedisce, almeno per ora, di essere nel mondo con tutte le nostre possibilità «progettuali».
Contro l'oggetto, ma non per negarlo:
per migliorarlo nella sua capacità prestazionale, per raffinarlo, non perdendo
mai di vista la dimensione estetica, che
rimane fondamentale quando si parla di
design: l'arte rimane sempre sullo sfondo, come aveva compreso il Bauhaus.
La parte per il tutto, per cui esisterà
sempre una nuova futura possibilità di
disegnare una sedia, diversa da tutte le
altre, mettendo in campo un'altra intenzionalità capace di superare ciò che abbiamo già. Non a caso Quinz cita nel saggio conclusivo una riflessione di Sottsass,
sempre valida: «Quando uno va a ricercare di definire la funzione di qualsiasi oggetto, la funzione gli scappa tra le mani,
perché la funzione è la vita stessa. La funzione non è una vite in
più o una misura in meno. La
funzione è la possibilità finale
del rapporto tra un oggetto e la
vita». In uno dei dialoghi più importanti presenti nel libro, quello con
Giovanni Anceschi, viene denunciata
l'insufficienza del dibattito teorico
contemporaneo perché, come indica
lo stesso Anceschi, sono stati completamente dimenticati autori come Max
Bense e Abraham Moles, insostituibili
per comprendere, specie oggi, la
complessità della disciplina. Le parole
sono le cose: «L'oggetto, nella nostra civilità, non è mai naturale; l'oggetto ha un
carattere passivo, ma allo stesso tempo
costruito, è il prodotto dell'homo faber,
anzi più correttamente, è il prodotto della civiltà industriale», scrive Moles.
Il design non può essere contro sé stesso; è importante capirsi, poi ciascuno deciderà se essere artista o designer. Fondamentale è non cambiare il ruolo in corso d'opera; di Duchamp ce n'è uno solo,
almeno fino ad ora.