In un recente articolo, Umberto Fiori recensisce molto argutamente i primi tre volumi della collana di poesia bilingue
«Ardilut» per Quodlibet.
Egli si sofferma sul primo volume
della collana: il drammetto in prosa I Turcs tal Friùl composto da Pier Paolo Pasolini a Casarsa nel 1944. Il testo presenta, accanto alla fedele traduzione in prosa di Graziella
Chiarcossi, la traduzione in versi endecasillabi sciolti di Ivan
Crico. A questo proposito, Umberto Fiori scrive: «La scelta di
versificare l’opera – motivata forse dalla necessità di giustificare la presenza dei Turcs in una collana di poesia – lascia
perplessi. Al di là dei risultati artistici ci si chiede quanto
sia legittimo, oltre che utile, riscrivere un testo in una forma
diversa da quella in cui è nato, provocando oltretutto un effetto di curiosa ridondanza».
Vorrei cogliere l’occasione per sgomberare il campo da alcuni fraintendimenti sulla versificazione di un testo in prosa.
Che cosa significa, infatti, «riscrivere un testo in una forma
diversa da quella in cui è nato»?
Credo che il passaggio dalla prosa d’arte di Pasolini ai
versi di Crico (ma l’esperienza può essere provata anche à
rebours, dai versi alla prosa) ci suggerisca un’ipotesi. In questione pare essere la possibilità di sperimentare la stessa
tensione tra prosa e verso – la quale tensione interroga la
soglia tra le due, e con essa l’esigenza stessa di una forma
dell’espressione letteraria.
Alla questione della «lingua doppia» (Fiori) si affianca, nella versione Ardilut dei Turcs, quella della “forma doppia”, per
così dire, della scrittura: se vestire i versi, scalando l’enjambement, o se compattarsi e spedirsi di corsa nella prosa, la
quale cela in sé il ritmo, il piede che batte.
In un noto passo degli Essais, Montaigne afferma che più
vero dell’essere è certamente il passaggio. Lo spirito della
collana si pone sotto l’insegna del passaggio (dei passaggi):
passaggio tra dialetto e lingua, passaggio tra prosa e verso,
tra lingua e lingua, tra dialetto e dialetto (tanto all’interno
dello stesso, quanto all’esterno, nel suo tradursi in altro).
Così come il verso cela in se stesso la prosa, e viceversa,
allo stesso modo la lingua (tanto la dialettale quanto l’italiana) continua a recare in grembo l’embrione di se stessa:
il problema non consiste nella relazione tra i due elementi,
concepiti nella stasi, ma nel passaggio dall’uno all’altro, il
quale sovverte ogni identità sostanziale. La lingua che qui
si cerca non assomiglia a un soprammobile, ma piuttosto a
un refolo che lo spinge a terra. Poeta – qualunque lingua o
forma egli scelga – è colui che sa mantenere aperto il passaggio facendo appello al “non più” e al “non ancora” come allo
stesso, unico, momento letterario della lingua.
È forse utile ricordare a questo proposito come Leopardi
facesse spesso precedere al componimento in versi dei suoi
Canti il cosiddetto “getto in prosa”. Sospeso tra la versione
in prosa e quella in versi, il lettore – come nota lo stesso
Agamben in un saggio del 20142
– si trova come disorientato. Si legga ad esempio il getto dell’Infinito, pubblicato
nell’edizione Moroncini del 1927. Ebbene, non solamente
la versione in prosa contiene nella loro integrità numerosi
versi, qui semplicemente “gettati”, o forse appisolati; ma in
molteplici punti si mostra persino più incisiva e credibile
del componimento poetico. Malgrado Leopardi tenesse ben
ferma la distinzione tra la prosa e il verso («un linguaggio
ben propriamente poetico, e ben disgiunto dal prosaico», Zibaldone), è tuttavia evidente come il poeta elabori la propria
forma di lingua nel mezzo di un passaggio tra le due versioni, ed è forse per questa stessa ragione che frequenterà la forma-dialogo delle Operette, la quale forma già Aristotele poté
definire «una via intermedia tra la prosa e il verso» (De Poetis,
fr. 73 Rose).
La versificazione dei Turcs riesce, pertanto, a problematizzare l’essenza stessa della lirica, a interrogare ancora una
volta se il fatto poetico debba o meno essere collocato nel
verso, o se piuttosto debba sorvolare la forma alla volta del
contenuto ( la metafora che apre, come una lampada magica,
alla comprensione senza sforzo, con la grazia di un’immagine); o ancora se, come crede Milner, esso concerni la sola
natura dell’enjambement, la piega della sintassi così cara a
Penna e Caproni, poeti cui Crico si è certamente ispirato per
produrre la propria traduzione/ tradimento di Pasolini.