Recensioni / Santi Romano, Frammenti di un dizionario giuridico

Pensati come indagine di teoria generale del diritto, dovendo la filosofia e la giurisprudenza «procedere per vie diverse», quantunque poi le intuizioni della scienza giuridica possano essere dalla razionalità filosofica «illuminate», i Frammenti di un dizionario giuridico di Santi Romano (1875-1947), apparsi originariamente nel 1947, inaugurano oggi, a cura di Mariano Croce e Mario Goldoni, la neonata collana «Ius» dell’editore Quodlibet. Composti fra il 1943 e il 1946 (una voce, Clipperton, risale al 1930, ma è stata successivamente corredata, nel marzo del 1944, di «qualche breve aggiunta»), i Frammenti non sono, a dispetto della titolatura dimessa, l’esito di una resa, non avendo l’Autore «mai pensato» a un «vero e proprio dizionario». Questi, piuttosto, ha inteso raccogliere «alcuni appunti» su argomenti che, pur non sistematicamente trattati, lo hanno impegnato «a lungo».
Nonostante l’orditura rapsodica, l’unità dei Frammenti è garantita dalla costante preoccupazione di «risalire dalla sfera del dover essere a quella dell’essere», che mantiene la ricerca ben salda sul terreno storico empirico: al giurista, infatti, non è consentito, secondo Romano, di attardarsi in «costruzioni immaginose ed arbitrarie»; egli, anzi, toglierà i suoi concetti direttamente dal diritto positivo e dalla dottrina, rifuggendo al contempo dai pedanti scolasticismi di certa giurisprudenza (accusata, forse per un'inconsapevole reminiscenza jheringiana, di «abuso della logica»). Autentico giurista, quindi, è solo il prudente scrutatore dell’«intera vita sociale», che assomma in sé «acute facoltà di osservazione analitica e potenti facoltà di sintesi», insieme utili all’attingimento delle verità giuridiche, senza mai travalicare «il confine segnato dagli scopi pratici». Ciò che maggiormente si pregia nel giurisita, allora, non è l’esibizione ostentata della sottigliezza, ma la semplicità, sicuro indizio delle «più perfette opere».
La transizione dal piano del dover essere a quello dell’essere permette inoltre a Romano di rimarcare, nell’esame del concetto di diritto, che il giure «non si può ridurre per intero ad un complesso di norme», le quali, rispetto al più generale ordinamento, sono invece «un prodotto e una derivazione». Senonché, argomenta l’autore, l’adesione alla dottrina cosiddetta «istituzionistica» non si realizza a detrimento della «concezione esclusivamente normativa dell’ordinamento», concorrendo la prima, attraverso correzioni e integrazioni, alla migliore intelligenza della seconda. È però la prospettiva aperta dalla teoria dell’istituzione a chiarire l’«essenza» del diritto, fatta ora riposare nell’«organizzazione» del corpo sociale, che unifica, fissandoli, gli elementi dell’ordinamento, assicurando così, con l’ausilio non esclusivo delle norme, «persistenza» e certezza nella vita di relazione. Il carattere immobilizzante del diritto non osta tuttavia all’evoluzione della complessa unità ordinamentale, essendo questa sempre in grado, come materia viva, di coniugare identità e novità, indipendentemente dall’opera ermeneutica dell’interprete, che deve limitarsi alla «semplice cognizione del diritto vigente».
L’ordinamento, quindi, da Romano sotto ogni aspetto equiparato all’istituzione, costituisce il fatto originario della realtà giuridica, di cui non bisogna ricercare il fondamento trascendentale, potendo il giureconsulto per contro concludere che esso «c’è perché c’è e quando c’è». L’istituzione, del resto, nonostante l’opposta opinione che il diritto fa derivare da un superiore atto di volontà, ex facto oritur, donde la recisa preferenza dell’Autore per una nozione della giuridicità comprensiva del suo insopprimibile nucleo involontario. Lo stato, allora, non è più da intendere qual era dai mitologi del moderno contrattualismo, espressione delle volontà individuali desiderose di abbandonare l’incertezza primitiva, scoprendosi adesso comunità necessaria, sebbene ormai incapace di riassumere «tutta la vita sociale e giuridica». In se stessa, infatti, giuridica sarebbe pure la «società dei ladroni», fra i cui membri si osserverebbero addirittura criteri di giustizia.
Decisiva, d’altronde, per il pluralista Romano, è la riforma dell’equivoco principio di esclusività imputabile alle «esagerate e spesso paradossali teorie Kelseniane», che obbligherebbe, con cogenza «arbitraria e aberrante», un ordinamento originario a rifiutare carattere giuridico ad ogni altro. Un ordinamento siffatto, invero, potrebbe disconoscere gli altri, senza perciò esservi costretto, stante la contraddizione di necessità e sovranità. E ordinamento giuridico originario, seppure solo in nuce, sarebbe altresì il movimento rivoluzionario in lotta con il preesistente ordinamento statuario. Distinta dalla guerra, che è violenza regolata dal diritto internazionale, la rottura rivoluzionaria, prodotto dell’impazienza, rinunciando alla forza razionalizzatrice della storia, avrebbe come sbocco esclusivo il disordine permanente: qui, nonostante l’avalutatività del discorso scientifico, sembrano prevalere gli umanissimi timori dell’Autore, che nella coeva fase politica italiana colse una rivoluzione foriera di gravi conseguenze.
I Frammenti romaniani, opera di teoria generale, non mancano però di discutere uno dei loci classici della tradizione giusfilosifici, quale il nesso di diritto e morale, dimostrando una volta di più l’esatezza del protrettico aristotelico, secondo cui per «decidere di non filosofare è pur sempre necessario filosofare». Così, valendosi della lezione neoidealistica di Croce e Gentile , che all’Autore pare corrobare, ex parte philosophiae, il suo anti-volontarismo giuridico, diritto e morale sono dichiarati qualitativamente differenti, disciplinando, quello, il foro esterno; questa, l’interiorità della coscienza. E se pure è auspicabile la convergenza delle due forme di eticità, Romano, estraneo alle rivendicazioni del giusnaturalismo, può comunque concludere che il «diritto per dir così immorale o ingiusto non è meno diritto di quello morale».
La rivalutazione del fatto normativo, infine, consente all’Autore di giustaporre, in una pagina che certo non sarebbe dispiaciuta a Savigny o a Croce, diritto e linguaggio, subordinando la saggezza delle legislazioni all’incontro di ius scriptum e consuetudine.