Quanto è difficile fare i conti
con l'omicidio del commissario Luigi Calabresi
(17 maggio 1972), bollato
dalla «piazza» quale maggiore responsabile della defenestrazione
dell'anarchico Giuseppe Pinelli (15
dicembre 1969)! Come è noto, il caso
si riaprì nell'estate del 1988, in un'altra Italia, grazie al pentimento di Leonardo Marino. Autoaccusandosi di
aver guidato l'auto del delitto, Marino tirò in ballo tre suoi ex compagni
di Lotta Continua, che si proclameranno sempre innocenti: il «gregario» Ovidio Bompressi (esecutore
materiale) e i due massimi dirigenti
dell'epoca: Adriano Sofri e Giorgio
Pietrostefani (mandanti). Passata la
buriana post-sessantottesca, nel
1988 il proletario Marino, il più sfortunato di tutti, faceva il venditore
ambulante di crêpes, Bompressi il
commesso libraio, Sofri il professore e il «consigliere dei potenti» e Pietrostefani il manager di successo.
Carlo Ginzburg aveva già pubblicato questo pamphlet nel 1991, «per
influire sull'esito del processo d'appello, smontando in maniera argomentata le presunte prove addotte
contro Adriano Sofri», suo intimo
amico. Abituato per mestiere a leggere gli atti dei processi per stregoneria del Cinque e Seicento, aveva
colto nei risvolti dell'istruttoria su
Calabresi i lacerti di una mentalità
inquisitoria degna di secoli più bui.
In realtà, compulsando i documenti sine ira ac studio, è arduo concordare con Ginzburg (e altri intellettuali innocentisti come Sciascia e
Tabucchi). La sentenza-ordinanza
di rinvio a giudizio, firmata nel 1989
da Antonio Lombardi, un giudice
istruttore molto riservato e scrupoloso, è ben scritta e motivata, tanto
che in sede dibattimentale nessuno
riuscirà mai a smontarla. Le fisiologiche imprecisioni e contraddizioni
in cui incorse Marino non intaccano
la solidità della sua confessione, suffragata da numerosissimi riscontri.
Se, come sembra plausibile, quel
giorno Marino era davvero a Milano
in via Cherubini (il luogo del delitto),
ne discende la responsabilità dei tre
chiamati in correità, essendo impensabile che il pentito abbia agito
da solo. Per di più, spulciando le carte processuali affiorano i nomi di almeno altri due militanti di Lc probabilmente implicati nel fatto criminoso e usciti dal processo soltanto
per insufficienza di prove.
Nell'attuale postfazione, Ginzburg parla di «un caso giudiziario
senza precedenti in Italia - e forse
anche fuori d'Italia». Gli imputati, in
effetti, sono stati condannati in via
definitiva soltanto nell'ottobre
2000, dopo ben 9 processi (incluso
uno di revisione). Ma questa abnorme trafila non riflette tanto una verità controversa, quanto l'esasperato formalismo della nostra giustizia.
Certo, in un'ottica astrattamente
garantista, è senz'altro legittimo sostenere, con Ginzburg, la natura indiziaria del processo Calabresi, celebrato in una sede - il tribunale di
Milano - non particolarmente bendisposta verso gli imputati. E tuttavia, alla luce dei fatti, è difficile ipotizzare che l'attentato non sia stato
organizzato dalla struttura clandestina di Lc. Lo stesso processo di revisione tenutosi a Venezia nel 1999-2000, sul quale l'autore non si sofferma, si è rivelato un boomerang
per la difesa giacché le nuove prove
addotte hanno rafforzato il quadro
accusatorio.
In questo libro resta sfumato il
«contesto» in cui maturò l'omicidio,
giunto al culmine di una drammatica escalation che in quei mesi del
1972 aveva registrato il primo sequestro-lampo delle Br, la morte dell'editore «bombarolo» Giangiacomo
Feltrinelli e la tragica fine dell'anarchico Franco Serantini, pestato a
sangue dalla polizia.
Soprattutto, non v'è traccia dell'«apprendistato al fanatismo, alla
pratica della violenza e al disprezzo
della vita umana» che plasmò una
parte dei militanti di Lc. Sono parole
di Angelo Ventura, pioniere degli
studi storici sul terrorismo italiano,
il quale al tempo degli arresti vergò
sul «Corriere» un lucido commento
in cui invitava a calarsi nel clima infuocato dell'epoca per individuare la
chiave di quello che fu il primo delitto politico nell'Italia repubblicana
(29 luglio 1988).
Al Convegno nazionale di Lc
apertosi a Rimini il 1° aprile 1972, Sofri proclamava che la situazione imponeva «di realizzare direttamente
la violenza come avanguardia, e in
modo organizzato». «Già ora», precisava Sofri, quando mancava un
mese e mezzo all'agguato contro Calabresi, simbolo «della dittatura capitalistica e del suo Stato». Atto
esemplare di «giustizia» volto ad alzare il livello dello scontro, l'esecuzione del commissario sdoganò a sinistra l'annientamento mirato dell'avversario, prefigurando gli omicidi seriali delle Br.
Chissà, forse parlando di Calabresi con i suoi compagni Sofri fece
proprie le parole che nel 1944 avrebbe pronunciato l'archeologo comunista Bianchi Bandinelli partecipando alla discussione se assassinare
Giovanni Gentile: «È un atto terribile, ma va fatto».