Nella vita di Pascoli ogni parola, ogni sussulto
gira intorno alla figura del padre. Così, nel quinto
atto della tragedia Bruto (e non aveva quindici
anni quando la scrisse) il protagonista - dopo l'uccisione di Cesare - grida il suo sconforto: "A sera,
a mane / a fianco stanmi le crudeli Erinni / cinte
di serpi? O fiera vista! E vanno / ripetendomi sempre: Il padre, il padre / uccidesti e non muori? A
morte, a morte / andiamo dunque, e l'impedisco
io mai? / A che quel branda in mano insanguinato? / A che? Che veggio? A lettere di sangue...
/ il parricida".
Pascoli adolescente scrisse questi endecasillabi
nel 1870, nell'infermeria, dov'era ricoverato per
una breve degenza, del Collegio "Raffaello" ad Urbino (studiò presso gli Scolopi dalla prima Elementare alla prima Liceo) e, nell'evocare la figura
di Cesare, sembra sdoppiarla nel condottiero tiranno e nel padre adottivo. Il 10 agosto 1867, nell'ombra di un agguato, era stato ucciso suo padre
Ruggero.
Ormai non dà pace l'intrecciarsi dei sentieri della
vita e della letteratura ma entrambi, sbarrati, terminano dove s'apre un burrone.
Mi trovo a parlare di questo nostro poeta, con cui
inizia la poesia del Novecento, sedotto dalla
nuova fascinosa edizione del libro di Cesare Garboli Trenta poesie famigliari Giovanni Pascoli,
edizioni quodlibet.
Ma perche scrive Pascoli poeta? Per continuare la
vita - già finita vivendo - e, come nei sogni, ritrovare l'urlo della specie, sentire che l'io è solo un
simulacro grammaticale: dietro di noi c'è quel
padre senza nome, e senza voce, che parla attraverso i silenzi delle madri: ed è la specie cui apparteniamo e ride delle nostre paure.
Nel suo impegno sociale, Pascoli sa infatti che non
siamo altro che la nostra specie, e che invece c'intestardiamo a distinguercene, a separare il "tu" dal
miserevole "io". Ma, facendo così, ci votiamo alla
morte. Questo concetto è alla radice del suo ribellismo giovanile, il socialista, l'ansia fraterna che
mai lo abbandonerà.
Leggiamole, queste straordinarie parole di Pascoli,
riportate da Garboli: "Si piangono lagrime già
piante con altri occhi, e si riconosce col sorriso
una madre che ci arrise qualche millennio prima
che nascessimo": ed è la prolusione al suo Corso
di Grammatica" del 1896. Continua, riconducendo il singolo alla specie: " L'uomo sente allora
per quali misteriose fibre sia congiunto all'umanità
che fu e quella che sarà e comincia a consolarsi
non solo dell'esser nato come tanti altri, che morirono, ma anche del dover morire lasciando tanta
parte di sé ad altri che nasceranno". Da questa
premessa teorica scaturisce la straordinaria analogia metaforica delle due foglie sul grande albero,
che abbiamo messo nel titolo: "Due foglie dello
stesso grande albero, a primavera, l'una, fogliolina
gommosa tenera che spunta dalla gemma, l'altra,
vicina a lei, foglia accartocciata e scabra che si
stacca dal nodo, se pensassero di essere e avessero
la coscienza di appartenere all'albero, forse potrebbero sentire e pensare l'una di nascere e l'altra
di morire?".
L'anno successivo, nel 1897, Pascoli pubblica sul
Marzocco i primi capitoli delle sue riflessioni
sulla poesia (Il fanciullino sarà pubblicato integralmente nel 1907). Rifacendosi alla lettura critica di Gianfranco Contini, Agamben sottolinea il
rapporto difficile - nella visione teorica di Pascoli
- della poesia con la lingua morta, le parole morte
che ogni poeta è costretto ad affrontare.
Una prospettiva inquietante, che può avvicinarci
all'enigma.
Tentare l'impossibile suono della poesia, significa
anche scendere nelle case dell'Ade, dove le porte
girano su cardini invitanti, e non sai se potrai oltrepassarle, né tornare indietro, una volta che ci si
è inoltrati nella nebbia per ascoltare l'inudibile richiamo.
Ma chi è Pascoli? "Un uomo infelice della più immedicabile infelicità" scrive Emanuele Trevi. E il
pensiero corre a Giacomo Leopardi che Pascoli,in una conferenza tenuta a Firenze, nel marzo
1896, evoca nel disperante esilio di Recanati:
"Queste cose io ripensavo aggirandomi per i luoghi dove Giacomo Leopardi soffrì più che non
visse, meditò che la vita è dolore. Il sole era veramente dileguato, gli uccelli si erano taciuti, pace
avevano infine la nuvole, i monti di Macerata spiccavano appena nell'azzurro, la valle del Potenza
era bruna e silenziosa. Appena appena gli ulivi facevano sentire qualche brivido secco e un cipresso
nereggiava sul colle dell'Infinito. E io imaginai il
Poeta, ancora giovinetto, seduto ancora dietro la
siepe, un fanciullo macilento, dal viso pallido e senile, coi capelli neri e gli occhi azzurri".
Cos'è il dolore? Rispondo con le parole di Salvatore Natoli (1986): "Il dolore è innocente". E aggiunge: "E in questo senso non può che essere
ingiustificabile".