Recensioni / Gilles Clément e Piet Oudolf. Confronto tra i giardinieri umanisti

Negli ultimi cinquant’anni circa si è intensificata l’attenzione per il paesaggio e per gli elementi strutturali che lo compongono. L’ecologia ha avuto un ruolo decisivo nell’approfondire la conoscenza dei sistemi viventi e porli in relazione cercando di tutelarne l’equilibrio. È emerso col tempo un tentativo di superare la dicotomia natura-cultura in virtù di un’indagine non solo scientifica degli ecosistemi, ma anche legata a una comprensione degli aspetti soggettivi della percezione. Punto focale è stato rivalutare il ruolo dell’essere umano che, in passato, veniva considerato come separato dal contesto naturale; l’obiettivo ora è quello di inserirlo nel paesaggio da lui stesso pensato e indagato. L’avvicinamento al paesaggio avviene tramite l’esperienza diretta e l’osservazione mirata dei fenomeni e dei meccanismi, non più pensati come massa calcolabile e riducibile a rilevazioni matematiche, ma come forza motrice di cambiamenti e ripensamenti del vivere. In questo Gilles Clément e Piet Oudolf, in quanto paesaggisti, hanno dato un contributo fondamentale, soprattutto nella rivalutazione di alcune specie vegetali poste ai margini e nella creazione di una nuova possibilità di avvicinamento alla natura.

IL CASO GILLES CLÉMENT
Gilles Clément (Argenton-sur-Creuse, 1943) è un agronomo, biologo e paesaggista francese che, a partire da sperimentazioni personali nell’area limitrofa alla sua abitazione nelle Creuse e poi nelle diverse commissioni di parchi pubblici urbani, ha rivoluzionato l’idea di giardino. Fin da bambino, racconta lo stesso Clément ne Il giardiniere planetario, aveva sperimentato con suo padre l’attività di giardinaggio, ma si trattava di modalità in cui la dicotomia tra l’uomo e il mondo vegetale-animale era molto forte. Dai suoi racconti emerge una profonda perplessità in merito alla caccia alle talpe, considerate la causa di dissestamenti nei giardini, oppure in merito all’enorme utilizzo di diserbanti e pesticidi per combattere tutto ciò che poteva creare scompiglio rispetto all’azione del giardiniere.
Interessato sempre di più alla libertà spontanea di manifestazione delle piante, Gilles Clément arriverà a creare giardini in cui ogni specie, autoctona o alloctona, perenne o stagionale, vagabonda o stanziale, esprime la peculiarità del giardino in cui è inserita.
A tal proposito, il paesaggista francese elabora una rivalutazione del mondo vegetale per mezzo del concetto di “giardino in movimento” (Gilles Clément, Il giardino in movimento, Macerata, Quodlibet, 2011). Secondo questa visione, il giardino è una struttura vivente, dotata di regole e manifestazioni autonome in cui, tramite l’attività del giardiniere che guida il suo strutturarsi, si manifestano cambiamenti ed evoluzioni continue. La storia di questi luoghi dimostra, però, come l’uomo abbia sempre lottato contro il tentativo della natura di esprimersi anche attraverso un disordine apparente, in virtù di una volontà di gerarchizzare, ordinare e confinare. Nel momento in cui l’attività umana cessa di manifestarsi, la natura si riappropria, in diverse forme, dello spazio abbandonato. Ne sono un esempio le friche, terreni non occupati che ospitano, col tempo, piante di ampiezza biologica consistente. Le specie vegetali dimostrano come dopo un abbandono avviene sempre una riconquista o una nuova invasione, da leggersi come l’occupazione di uno spazio fino a quel momento lasciato vuoto in un ecosistema. Il giardiniere non può opporsi ai movimenti e alla circolazione continua della vegetazione, ma può dare un orientamento specifico alle specie e al loro continuo spostarsi.
In questo le erbe soprannominate da Clément “vagabonde” hanno un ruolo centrale. Lo spostamento di piante da una zona all’altra del mondo è strettamente collegato all’attività dell’uomo che, nei suoi movimenti irrequieti, permette a diverse specie di attraversare i confini naturali e creare frammenti di biomi. Il vagabondaggio della vegetazione e il suo nomadismo creano nuove configurazioni spaziali, rimodellano i luoghi e fanno emergere la capacità inventiva e di adattamento di specie diverse che, trovandosi per la prima volta a contatto, creano associazioni libere e spontanee.

IL PARC ANDRÉ-CITROËN A PARIGI
Il Parc André-Citroën a Parigi è una chiara manifestazione di questa idea di movimento insita nel mondo vegetale. Il parco è situato sulla parte sinistra della Senna, sul sito della fabbrica automobilistica Citroën. In seguito a un concorso indetto dalla città nel 1985 per riqualificare la zona e ripensare una nuova destinazione d’uso dell’area, il team composto da Gilles Clément e dall’architetto Patrick Berger propose il progetto considerato vincente. Il parco pubblico, una superficie di ventiquattro ettari, è composto da tre zone: il Jardin Blanc, animato da una vegetazione di colore bianco, il Jardin Noir, la parte con la vegetazione più fitta, e un grande parco centrale. Venne aperto al pubblico nel settembre del 1993 e nel primo fine settimana di apertura contava undicimila visitatori.
“È percepito istintivamente come uno spazio di libertà, è vissuto come tale, liberamente, con tutti gli interrogativi che pone l’uso di un luogo le cui regole siano ancora sconosciute. A volte rifiutato, spesso criticato, sempre citato questo giardino costituisce una risposta alla domanda implicita di un mondo che aspira a ritrovare nella natura una parte importante della sua esistenza” (Andrea di Salvo in Gilles Clement, Elogio delle vagabonde. Erbe, arbusti, fiori alla conquista del mondo, Roma, DeriveApprodi, 2010, p. 8.).

Accanto all’attività di sapiente organizzazione dei giardinieri che hanno valutato quali specie inserire, si registra, ogni anno, la comparsa di nuove specie vegetali che obbliga a un ripensamento costante del giardino. Anche i visitatori hanno un ruolo decisivo nell’andamento del parco: le zone in cui sono presenti determinati fiori è il risultato non solo di una scelta consapevole da parte dei manutentori dell’area, ma anche dell’abitudine degli utenti di camminare in alcune zone piuttosto che in altre, delineando col tempo un tracciato specifico. Dall’esperienza diretta e dalla fruizione del parco emerge continuamente una nuova morfologia in cui l’attività congiunta del mondo vegetale e umano, di visitatori e giardinieri, crea una nuova concezione di giardino pubblico.
All’idea di movimento si affianca quella di mescolanza planetaria delle specie vegetali, considerate in grado di creare associazioni nuove e imprevedibili. Secondo Gilles Clément, il “giardino planetario” (Gilles Clément, Il giardiniere planetario, Milano, 22 Publishing, 2008) rappresenta un nuovo paradigma in cui le relazioni tra il giardino, il paesaggio e la natura si articolano secondo una nuova configurazione. Questa teoria si fonda sull’idea per cui il pianeta può essere assimilato a un giardino, quindi spazialmente determinato (concluso) per definizione dalla biosfera che lo caratterizza, in cui si verificano mescolamenti e flussi di movimento che portano a un ripensamento delle identità. Esiste, quindi, il giardiniere planetario, figura che, per mezzo del guardare, comprende i comportamenti del vivente senza porsi in un ruolo dominante, lasciando alla natura l’invito di condividere le proprie decisioni. Il giardiniere può sfruttare la diversità, ma senza distruggerla e la sua presenza consiste nel verificare e modificare le direttrici del movimento, misurando le differenze attraverso la comparsa o la scomparsa delle specie come bio-indicatori fondamentali.

IL TERZO PAESAGGIO
All’interno del giardino planetario si inserisce il Terzo paesaggio come spazio residuale dell’indecisione in cui vengono accolti piante e animali che non trovano rifugio altrove. Come luogo dell’invenzione possibile e del continuo mescolamento tra specie vegetali che preparano l’arrivo delle successive in uno stato di metamorfosi permanente, è metafora dell’accoglienza ed espressione di un sistema biologico libero che obbedisce a un’evoluzione fatta di continui adattamenti (Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2004). Il concetto di Terzo paesaggio viene messo in scena da Gilles Clément con il suo progetto per il Parc Henri Matisse a Lille, completato nel 1995. Della grandezza di otto ettari, il parco ideato da Clément in collaborazione con Eric Berlin, Claude Courtecuisse e Sylvain Flipo fa parte del disegno Eurolille che parte della volontà di riqualificare la zona urbana nelle vicinanze della stazione ferroviaria.
L’area è composta da una parte divisa in radura del vento e radura delle acque, dove le specie inserite hanno particolari caratteristiche e richiamano per conformazione, struttura, movimento e sviluppo il vento e l’acqua, il prato Boulingrin e l’Île Derborence. Quest’ultima, collocata su una struttura artificiale dell’altezza di circa otto metri, è massima rappresentazione del Terzo paesaggio poiché è una zona completamente inaccessibile al pubblico, dove la natura si esprime senza alcun intervento esterno. L’isola prende il nome da una foresta primaria alpina situata in Svizzera, nel Vallese, rimasta intatta e non modificata dall’intervento umano dall’ultima era glaciale. Come tentativo di riproposizione di un paradiso vegetale, l’isola rappresenta per Clément un frammento spaziale e un rifugio ecologico che consente alle specie più vulnerabili di sopravvivere e ricolonizzare l’area circostante. Il paesaggista francese decide deliberatamente di mantenere una netta distanza tra il pubblico e la foresta, lasciando alla natura la possibilità di fare il suo corso. Tutte queste riflessioni possono essere racchiuse in quella che lo stesso Clément definisce “ecologia umanista” (Andrea di Salvo, Lo sguardo “frazionato” di Gilles Clément, Roma, Alias-il manifesto, 24 agosto 2011), per cui il vivente, uomo compreso, interagisce senza gerarchie o frontiere.

L’ECONOMIA ECOLOGICA
Di qui una rivalutazione dell’architettura come unico modo di comprendere lo spazio, della scienza e dell’approccio al vegetale come materia di indagine scientifica rappresentata solo da calcoli, statistiche e dati e l’idea della natura come biomassa misurabile. Quella di Gilles Clément è una riflessione più ampia che induce una messa in discussione dell’idea vitruviana dell’uomo come governatore dell’universo e un tentativo di ripensare l’economia globale creando una nuova coscienza collettiva. Alla finanziarizzazione dell’esistenza il paesaggista oppone l’economia ecologica, basata sull’assunto di “fare quanto più possibile con e quanto meno possibile contro” (Concetto centrale nel pensiero di Gilles Clément, ripreso nella maggior parte dei suoi scritti) e vede nelle erbe vagabonde un modello a cui ispirarsi per volgere a proprio favore l’incertezza e creare nuove situazioni di esistenza.
I suoi giardini sembrano essere a tutti gli effetti luoghi di resistenza, dove a partire dai residui abbandonati si creano nuove forme di mescolamento possibile in cui gli esiliati trovano riparo e possibilità di sviluppo. Il giardino è, quindi, espressione di trasformazioni, lotta alla staticità e alla certezza, simbolo di un nuovo eco-socialismo in cui “la diversità dipende da questo ‘risveglio’, da questa rivolta. Essa rievoca una violenza che qualifica la vita e non la contraddice. Dietro il termine vita bisogna leggere forza, necessità di esistere al di là dei sistemi. Occorre leggere tentativi, esuberanze, eccessi e riassorbimenti, comparse-sparizioni, movimenti imprevedibili, invenzioni” (Gilles Clément, Elogio delle vagabonde. Erbe, arbusti e fiori alla conquista del mondo, Roma, DeriveApprodi, 2010, p. 118).

IL CASO PIET OUDOLF Alcuni degli assunti elaborati da Gilles Clément trovano una forte corrispondenza nell’operato di Piet Oudolf (Haarlem, 1944), noto landscape designer olandese.
Come il paesaggista francese, Oudolf ha creato giardini spontanei in cui le piante “povere” e con finalità non specificamente ornamentali, come soffioni, graminacee, spighe, fiori di campo, erbe infestanti, si associano liberamente. A differenza dell’attività di Clément, però, dalla quale emerge una forte idea di libertà selvaggia con cui il mondo vegetale si esprime e occupa gli spazi obbligando l’uomo ad adattarsi, il paesaggista olandese non esclude totalmente l’impronta umana, ma la usa per osservare e studiare i comportamenti che le piante assumono nei giardini da lui progettati.
Come figura di spicco del movimento “New Perennial” ‒ di cui William Robinson è stato fondatore dalla fine del Settecento ‒ Piet Oudolf pratica un approccio naturalistico al giardinaggio, ponendo al centro della sua ricerca l’impatto estetico-attrattivo e la durata stagionale della pianta (Piet Oudolf & Noel Kingsbury, Planting: A New Perspective, Portland, Timber, 2013). A partire da indagini botaniche sulla struttura e la riproduzione del mondo vegetale, la sua attività si basa principalmente sulla combinazione di piante perenni, cioè su quelle che non hanno un ciclo di vita breve, ma durano tutto l’anno. Le piante perenni e autoctone, oltre a riqualificare zone urbane cementificate, costituiscono il modo per attirare animali fondamentali per la biodiversità come api e farfalle. Secondo questo approccio, la realizzazione dei giardini avviene in totale simbiosi con i tempi naturali e si basa sulla sperimentazione come modalità principale di apprendimento. Come sostiene Clément, nella fase di ideazione preliminare la presenza del giardiniere non è nascosta, ma tende a scemare quando la natura si appropria degli spazi concessi, manifestandosi come forza creatrice di legami comunitari non predeterminati.
Nel processo creativo di Oudolf emergono chiaramente le implicazioni ecologiche legate al paesaggio come esperienza in cui la divisione natura-cultura perde completamente sussistenza, per cui “le piante conducono le persone verso un luogo, ne cambiano la dinamica” (cit. in Claudia Zanfi, I giardini di Piet Oudolf, in Artribune.com, 6 novembre 2018).

Il superamento di una concezione meccanicistica consente di porre in dialogo il fenomeno analizzato attraverso il metodo scientifico e la componente percettiva esperienziale, anche soggettiva, che l’uomo fa del mondo vegetale circostante. In questi termini, il progetto che interviene sul paesaggio deve basarsi su un equilibrio e sull’integrazione tra gli elementi già presenti nel luogo e quelli aggiunti per volontà del progettista. Ciò consente una maggiore consapevolezza di una continua relazione e correlazione degli elementi paesaggistici in cui la pretesa dell’uomo di controllare i sistemi complessi decade. I limiti imposti dai luoghi non vengono sopraffatti, ma diventano terreno fertile per nuove creazioni vegetali (Paola Sabbion, Paesaggio come esperienza. Evoluzione di un’idea tra storia, natura ed ecologia, Milano, Franco Angeli, 2016).
Per Piet Oudolf l’impatto estetico dei giardini inseriti nelle metropoli caotiche e inquinate è essenziale, in quanto la bellezza delle piante diventa l’espressione di una diversità come forma di ribellione di fronte ai devastanti cambiamenti ambientali degli ultimi decenni.
Si tratta, a tutti gli effetti, di una bellezza inaspettata che si manifesta attraverso la metamorfosi insita nell’evoluzione naturale (dal film Five Seasons di Thomas Piper, 2017) e in cui “il design del giardino non riguarda solo le piante, ma l’emozione, l’atmosfera, il senso della contemplazione” (Ibid.).

HUMMELO E HIGH LINE
Centrale nella sua attività è il giardino creato nel 1982 a Hummelo, nei pressi di Arnhem, nei Paesi Bassi. Qui, con la moglie Anja ha sperimentato la creazione di un giardino in cui le erbe perenni con le loro trasformazioni naturali scandiscono il passare delle stagioni e a cui se ne aggiungono spesso di nuove. L’idea di spontaneità, guidata dalla mano del giardiniere, si manifesta in tutta la sua bellezza, mostrando i cambiamenti naturali che il paesaggio assume a partire dai cicli stagionali, dalla luce e dalle modalità con cui le piante dialogano tra loro stabilendo nuovi legami attraverso l’auto-semina. Emerge una forte idea di movimento che, seppur lento agli occhi dell’uomo, scardina molti dei progetti iniziali dando forma a nuovi tipi di associazioni.

La dinamica della continua evoluzione, spesso imprevedibile, dialoga con la volontà di fornire una riqualificazione del contesto urbano e si manifesta anche nel progetto realizzato sulla High Line di New York nel 2006. In questo giardino diventano protagoniste le piante autoctone tolleranti la siccità che occupano, secondo una disposizione lineare, i resti di una vecchia linea ferroviaria nella zona di Manhattan. Qui le trame dei colori riflettono i cicli naturali di vita e morte del mondo vegetale, manifestandosi, però, secondo una progettualità controllata, in quanto molte associazioni e sviluppi tra le piante sono frutto di un accurato processo ideativo iniziale che viene tuttora sorvegliato. Tutte le attività di manutenzione sono realizzate secondo principi sostenibili a partire dal compostaggio, dalla gestione integrata dei parassiti e dalle pratiche compatibili con l’attività degli agenti impollinatori. Questo giardino è, in ogni stagione, un rifugio tranquillo per gli animali come gli uccelli che, anche nel periodo invernale, possono trovare riparo tra fiori e foglie secche. In questo giardino, per quanto l’attività umana sia presente e si affianchi a quella vegetale, le piante vengono lasciate libere di esprimere la propria metamorfosi in ogni periodo dell’anno.
IL LURIE GARDEN MILLENIUM PARK E LA BIENNALE DI VENEZIA
Anche al Lurie Garden Millenium Park di Chicago, realizzato tre anni prima rispetto al progetto sulla High Line, Piet Oudolf sradica l’idea comune di giardino come spazio curato composto da prati ben tagliati, alberi e panchine. Anche in questo caso non si tratta di un giardino coltivato tradizionalmente, bensì di uno spazio in cui le forze naturali si esprimono creando concatenazioni. Emerge un’estetica disordinata che si è stratificata nel corso del tempo a partire da una progettazione del paesaggio sapientemente strutturata. Con questi giardini viene scardinata completamente la dicotomia tra il giardino coltivato e i paesaggi naturali per creare una nuova estetica, basata sulla possibilità del pubblico di fare esperienza diretta e di confrontarsi realmente con i processi naturali in divenire.
Seguendo gli stessi principi ecologici dei suoi progetti precedenti, Oudolf nel 2010 è stato invitato a intervenire nel Giardino delle Vergini per la XII Mostra Internazionale di Architettura di Venezia People meet in the architecture, curata dall’architetta giapponese Kazuyo Sejima. Qui, al termine del percorso espositivo tra gli edifici dell’Arsenale, Oudolf ha creato un intervento fiorito ricco di Aster, Persicaria, Eupatorium, Aconitum, Echinacea, Dahlia da affiancare alla vegetazione autoctona già presente nel giardino. La semina è avvenuta nel periodo primaverile per consentire alle piante di essere in fiore e manifestarsi con tutti i loro colori sgargianti nel periodo di apertura dell’esposizione, tra la fine dell’estate e l’autunno. Il suo progetto ha riscosso molto successo e nel 2012 Oudolf è stato richiamato a Venezia da David Chipperfield, direttore di quella edizione della Biennale di Architettura, per nuove manutenzioni e interventi sul giardino.

CONCLUSIONI
Non è un caso che le protagoniste dei progetti vegetali di Piet Oudolf, come per Gilles Clément, non siano piante e specie costose e altolocate, bensì quelle che vengono chiamate da Clément “erbe vagabonde” e piante spontanee. Tutto ha inizio dalla volontà del paesaggista che innesca il processo, ma è poi la natura a trovare un modo per occupare gli spazi secondo i propri ritmi vitali.
Nell’operato sia di Clément che di Oudolf possiamo rintracciare una metafora: attraverso studi e osservazioni sul mondo vegetale viene proposta una nuova “ecologia umanista”, in cui l’uomo è pienamente inserito come facente parte dell’ecosistema e dove, a partire dal comportamento delle specie vegetali, si può desumere un nuovo modo del vivere sociale. Nella società ideata dai due paesaggisti e proposta attraverso i loro interventi vegetali nei contesti urbani emerge un’attenzione per i principi di inclusione, accettazione del diverso, considerazione della marginalità come punto fertile di riconquista, rivendicazione di una ricchezza senza l’imposizione della forza, del nomadismo come schema mentale per ripensare continuamente la vita senza cristallizzarsi, dell’abbandono dell’organizzazione gerarchica in virtù di una solidarietà egualitaria. Il giardiniere, secondo questa metafora, è forse chi aspira al raggiungimento di questo equilibro? È forse questa una rivincita ecologica della biodiversità selvaggia a scapito di quella dominata dall’uomo e dal suo desiderio di perfezione? È questo un superamento dell’idea illuministica dell’uomo come governatore del mondo?

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