Centodieci
pagine sottili,
per altro in piccolo formato.
Tanto basta per
mostrare con
spietata precisione quale sia
l'attuale livello del milieu
culturale italiano. I fogli in
questione sono quelli che
compongono il nuovo, potentissimo libro di Giorgio
Agamben pubblicato da Quodlibet e intitolato
A che punto siamo? L'epidemia come politica. Ecco: siamo
a un punto morto, o comunque
moribondo. E il motivo è semplice. Negli ultimi mesi, Agamben è stato uno dei pochissimi
intellettuali italiani capaci di
mostrare lucidità. Forse l'unico, se ci limitiamo a considerare soltanto il nebuloso universo cosiddetto «di sinistra». Ma
proprio in virtù della sua lucidità, proprio per via del coraggio che ha dimostrato nel dar
voce al dissenso, Agamben è
stato ferocemente attaccato,
dileggiato, persino insultato.
Gli è bastato veleggiare contro
il vento governativo per qualche giorno, e alcuni di quelli
che un tempo gli leccavano i
piedi l'hanno immediatamente promosso da «venerato
maestro» a «solito stronzo».
Che cosa ha scritto Agamben per suscitare tanto sdegno? Un pugno di articoli d'acciaio in cui mostrava come l'epidemia di coronavirus fosse
diventata il pretesto per sospendere o comunque affossare la democrazia. Il suo primo
commento, intitolato «L'invenzione di un'epidemia», è
uscito sul «Manifesto» il 26 febbraio. Altre riflessioni altrettanto ficcanti seguirono nei
giorni immediatamente successivi. E i latrati non si sono
fatti attendere.
A metà aprile, su «Micromega», Paolo Flores d'Arcais inveiva contro le «farneticazioni» di
Agamben, accusando uno dei
pensatori italiani più noti al
mondo di propinare una «filosofia del cazzo» (quando c'è la
classe...). Sul «Foglio», commentando un'intervista rilasciata
da Agamben al nostro giornale, Maurizio Crippa non fu più
leggero: «Ma sticazzi, roba da
darsela Agamben».
Curiosamente, quasi tutti
gli assalti più feroci sono giunti da sinistra. «Left» scrisse che il
filosofo «del tutto sconsideratamente parla di "emergenza
immotivata" per creare uno
"stato di paura". Pensieri a
vanvera». Persino Linkiesta.it
si sentì in diritto di definire
Agamben «filosofo fuori sincrono spiazzato dalla quarantena».
Funziona così, dalle nostre
parti. Se esprimi un pensiero
leggermente fuori linea rispetto alla tendenza dominante,
solitamente ti tappano la bocca accusandoti di essere populista, sovranista o fascista. E se
non possono darti del fasciopopulista perché evidentemente (come nel caso di Agamben) non lo sei, allora optano
per il sempre utile «vecchio
rincoglionito».
E intanto, mentre un manipolo di scalmanati inveiva contro il filosofo, la maggioranza
degli altri sedicenti intellettuali si accucciava ai piedi del
governo. Di più: in molti facevano a gara a invocare il pugno
di ferro contro gli italiani irrequieti, irrispettosi delle regole, colpevoli di non sopportare
più la reclusione imposta da
un esecutivo allo sbando.
Agamben denunciava l'incipiente dittatura sanitaria, gli
altri la accoglievano con canti
e balli.
Ora la tensione si è leggermente allentata, l'euforia della
riapertura ci fa sembrare lontani i giorni neri del lockdown.
Eppure ancora adesso sentiamo parlare di trattamenti sanitario obbligatori per chi non
si mette in riga, il ritorno del
virus è uno spauracchio sempre pronto all'uso.
Ecco perché le riflessioni di
Agamben continuano ad essere valide, anzi forse vanno prese in considerazione con ancora più attenzione. «Se i poteri
che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto
di una pandemia - a questo
punto non importa se vera o
simulata - per trasformare da
cima a fondo i paradigmi del
loro governo degli uomini e
delle cose», scrive il filosofo,
«ciò significa che quei modelli
erano ai loro occhi in progressivo, inesorabile declino e non
erano ormai più adeguati alle
nuove esigenze».
Chiaro: la pandemia si è in
effetti rivelata «un'occasione», come alcuni sostenevano.
Un'occasione per stritolarci
meglio.
«Come, di fronte alla crisi
che sconvolse l'impero nel II
secolo», continua Agamben,
«Diocleziano e poi Costantino
intrapresero quelle radicali riforme delle strutture amministrative, militari ed economiche che dovevano culminare
nell'autocrazia bizantina, così
i poteri dominanti hanno deciso di abbandonare senza rimpianti i paradigmi delle democrazie borghesi, coi loro diritti, i loro parlamenti e le loro
costituzioni, per sostituirle
con nuovi dispositivi di cui
possiamo appena intravedere
il disegno, probabilmente non
ancora del tutto chiaro nemmeno per coloro che stanno
tracciando le linee».
Lo stato d'eccezione ci sta
accompagnando verso una
Grande Trasformazione, tramite la sospensione delle garanzie costituzionali. La salute è divenuta una nuova religione di cui gli scienziati da
talk show sono i profeti. «Quello che nella tradizione delle
democrazie borghesi era un
diritto del cittadino alla salute
si rovescia, senza che la gente
sembri accorgersene, in
un'obbligazione giuridico-religiosa che deve essere adempiuta a qualsiasi prezzo».
Quando è minacciata la nostra salute, a quanto pare, siamo disposti a tollerare restrizioni della libertà impensabili.
Ogni volta che sentiamo parlare di «seconda ondata del virus», dunque, faremmo meglio a ricordarci quanto possa
essere devastante quello che
Agamben definisce «dispotismo tecnologico-sanitario».
Lo abbiamo sperimentato per
qualche mese, e non è stato
piacevole. Ora che i poteri dominanti hanno assaporato la
nuova forma di controllo, è facile pensare che coglieranno
l'occasione per riutilizzarla. A
quel punto, serviranno «nuove
forme di resistenza». Ma non
aspettiamoci che a inventarle,
siano gli «intellettuali» italiani. I quali, al solito, si sono rivelati i più entusiasti corifei del
regime. Escluso, ovviamente,
Agamben il «filosofo d'eccezione».