Recensioni / Autobiografia senza memoria

«Un mostro»: così definisce James Clifford (che l'ha tradotto in parte) L'Africa fantasma. Il libro, che doveva inaugurare un curriculum accademico irresistibile, una volta pubblicato - con quel titolo sin troppo accattivante, trovato da André Malraux - scandalizza il capomissione Marcel Griaule e i suoi sponsor scientifici (come Marcel Mauss, che sprezzante definisce il suo autore un «uomo di lettere»): Leiris capisce che la sua carriera etnografica non decollerà mai (mentre di Griaule sarà la prima cattedra di Etnologia alla Sorbona).
Niente di più distante dell'Africa fantasma, in effetti, dai protocolli severamente impersonali di Mauss e Griaule (il quale al «ricercatore» prescriverà di «qualificare le sue fonti e sparire dietro di esse»). Ma quel disastro scientifico parrà profetico, invece, ad antropologi poststrutturalisti come Clifford Geertz: che nell'88 metterà un suo estratto in apertura al capitolo chiave del suo "copernicano" Opere e vite. Sebbene il concetto di «etnografia di sé» paia fuorviante all'etnologo Jean Jamis, che firmala prefazione alla maestosa edizione Humboldt-Quodlibet (e di Leiris fu amico), in un testo del '67 è lo stesso autore aparagonarsi aun «testimone, esterno in qualche modo, di ciò che accade in lui». Il suo psicoanalista lo incoraggia a partire, per sfuggire al circolo allucinatorio che ha condotto il giovane poeta surrealista al limite della follia, ma anche questa fuga da sé viene sabotata dall'ossessiva autoanalisi dell'Africa fantasma. Che rappresenta una delusione anche in senso politico: se all'inizio Leiris ripete una parola d'ordine dell'amico Artaud, credendo di trovare in Africa la «fine dell'era cristiana», all'ultima pagina del viaggio confessa di «sentirsi terribilmente civilizzato».
A restargli in mano, allora, c'è solo se stesso. L'Africa fantasma non può ancora essere parte dell'immenso retablo autobiografico che, tra Età d'uomo e il grande ciclo della Regola dei gioco (solo in parte, colpevolmente, tradotto da Einaudi), farà di Leiris in assoluto uno dei quattro o cinque maggiori scrittori del secondo Novecento. Ma ne è la premessa indispensabile. La fascinazione per l'arte africana precede il viaggio (e in buona misura lo ispira), se è vero che è su «Documents», nel '29-30, che Leiris inizia- all'ombra di Georges Bataille - la sua opera straordinaria di visionario dell'arte; e all'opposto dei suoi calibratissimi libri maturi L'Africa fantasma è un'opera aperta - «autobiografia senza memoria» la definiva Guido Neri introducendo, da Rizzoli nell'84, la sua prima edizione italiana -: che però inaugura il metodo "etnografico", da lui seguito di lì in avanti, di scomporre il proprio autoritratto in un mosaico di fiches ricombinabili all'infinito.
Questa lacerazione fondante Leiris la deve davvero al fantasma di quell'Africa, per lui ipostatizzato dall'amour fou - nella realtà casto quanto delirante, nel sogno, di atroci violenze rituali - per la "zarina" etiope Emawayish, posseduta dallo spirito zar appunto, che un giorno contempla mentre in trance ruggisce roteando la testa e bevendo sangue («non avevo mai sentito fino a che punto sono religioso; ma di una religione in cui è necessario che mi si faccia vedere il dio»). Alla moglie Zette scrive - si legge nel commento alla nuova edizione - di non essere gelosa: «non si tratta che di fantasmi». Ma la verità è un'altra: quando Leiris incoraggia Emawayish a «scrivere delle canzoni d'amore» lei, impenetrabile come sempre, semplicemente gli chiede: «Esiste la poesia in Francia? Esiste l'amore in Francia?».