Nel dibattito sulla genesi e lo sviluppo del modernismo italiano, si inserisce ora
un volume di Mimmo Cangiano, frutto di «oltre dieci anni di lavoro in tre diversi continenti»: docente di Letteratura Italiana presso la Hebrew University of Jerusalem, ha
lavorato a lungo negli Stati Uniti, entrando nel vivo della discussione internazionale sul
tema mediante uno studio sistematico dei lavori pubblicati in inglese. Focalizzandosi
sul primo Novecento, l'autore riconosce come, in questo specifico periodo, si collochi
la «crisi della grande filosofia sistematica di matrice platonico/hegeliana [...] in favore
di un paradigma filosofico incentrato, da un lato, su presupposti di natura eraclitea,
e, dall'altro, su di un processo di radicale soggettivizzazione delle stesse prospettive
filosofiche», All'origine della lunga tradizione critica sul modernismo italiano, l'autore
colloca le Cronache di filosofia italiana di Eugenio Garin, opera del 1955 nella quale,
«per la prima volta, la produzione culturale italiana di inizio Novecento viene presentata in dialogo diretto con quei nodi teoretico-epistemologici che costituiscono l'alveo
d'azione della filosofia europea e americana del periodo». il volume di Cangiano offre un quadro articolato dei motivi dominanti nella cultura dei primi anni del secolo,
volto a dissipare il mito — ormai superato — dell'isolamento e dell'arretratezza della
letteratura italiana del periodo e a chiarire il peso dei terni modernisti nelle scelte di
alcuni «intellettuali tanto in campo culturale come politico, permettendo una lettura
dialettica delle stesse analisi finora dedicate a questi autori», Un'attenzione particolare
è riservata agli esponenti di quella straordinaria generazione degli anni '80 che Gramsci
identifica come secondo strato, ovvero autori e saggisti «impegnati nel compito di educazione di uno strato inferiore di altri intellettuali allora attivi nel Paese» costituito,
primariamente, da giornalisti e insegnanti. Tale approccio è essenziale per identificare
nel modernismo una «dominante culturale di una precisa fase storica» che, sottraendone gli sviluppi «alla prospettiva di una mera battaglia di idee», permette di indagare il
«fenomeno modernista come collegato ad una trasformazione (materiale e ideologica)
della stessa borghesia».
Il primo dei cinque capitoli introduce l'intera trattazione e, prendendo in esame
l'opera di Pirandello, presenta già al lettore alcune delle tematiche proprie della generazione degli anni Ottanta. Buona parte del saggio è dedicato all'analisi dei vecchi
e i giovani, considerato il più importante romanzo modernista italiano non solo per
le «nuove tematiche epistemologiche» ma perché ha saputo identificare, nel "Risorgimento fallito", «le cause storiche che costituiscono in Italia l'alveo di nascita del pensiero e della letteratura modernista». L'apparente realismo dell'unico romanzo storico
pirandelliano cela in realtà «un brulicare d'impressioni intradicgetiche» tale da mettere
in discussione l'autorità «del narratore esterno [...J, mantenendo solo l'immagine di
una frammentazione clic si traduce in riflessione sull'inutilità di ogni ideologia». Pirandello, inoltre, dà forma a quella perdita di «unità organico-razionale» che, attraverso il
ricorso alla specializzazione, fa mancare la «connessione delle differenti attività» produttive nelle fabbriche, «spezzando l'organicità delle antiche connessioni lavorativo/
sociali». Di qui l'incrinatura del rapporto tra vecchi e giovani, protagonisti di un serrato
confronto, in cui i giovani sono rappresentati emblematicamente dal personaggio di
L.,ando Lauretano, naturalmente incline a «un'esasperata e invocata esaltazione del disordine» tesa a risolversi in «una piena vitale» capace di distruggere quell'«irrigidimento
delle forme che egli identifica con lo stato liberale».
Il secondo capitolo è dedicato interamente alle esperienze intellettuali di Papini
e Prezzolini. Il primo si affaccia al proscenio come campione degli intellettuali che, a
contatto con la società di massa, vengono esclusi dai quadri direttivi e subiscono «una
progressiva degradazione del proprio prestigio e delle proprie funzioni», spingendosi
alla «disperata ricerca di formule ideologiche compensative capaci di supportare il primato del proprio lavoro». Cangiano delinea lo sviluppo dell'ideologia papiniana, tesa.
a ricondurre la critica al positivismo e al socialismo nell'alveo del dibattito modernista
e «inquadrando entrambi nei termini di forma», ovvero alla stregua di fragili «ideologie a base psicologica, mere espressioni di bisogni sentimentali che, dalla prospettiva
gnoseologica, sono destinate a essere travolte»: la propensione per l'azione rispetti)
alle «astrazioni concettualizzanti», tipiche della filosofia tradizionale, colloca Papini nel
vivo del dibattito sul pragmatismo, avviando quel percorso politico-pedagogico ispirato all'idea che «il mondo possa essere modificato mediante un'azione culturale volta
a intervenire sulle coscienze», un iter — non privo di ostacoli — di promozione di «un
nazionalismo culturale ad egemonia intellettuale, giustificato da una prospettiva filosofica in grado di rappresentare, in un orizzonte pragmatista, sia la critica modernista
dell'ideologia sia una saldatura tra pensiero e azione». Prezzolini è forse l'iniziatore, in Italia, «di quel clima culturale che va sotto il nome di modernismo», dimostrando «una
comprensione teorica [...] senza eguali di alcune delle principali tesi moderniste, anche
grazie alla lettura di autori quali Mach, Poincaré, Avenarius, LeRoy». Abbracciando un
idealismo posto «sotto l'egida di un divenire che esalta la contraddizione [...] quale statuto gnoseologico permanente», è in grado di approfondire i temi propri del dibattito
modernista e, pur nel solco di una lunga militanza crociana, è condotto a un sostanziale
rifiuto di ogni pretesa di conoscibilità della realtà oggettiva, riducendo ogni approdo
concettuale ad espressione formalizzata e meramente personale di un dato psicologico
(dunque mutevole) di partenza». Le riflessioni di Prezzolini lambiscono la filosofia, la
scienza, una storia svuotata di senso perché impegnata «in una lotta impari contro il
modo di essere della vita stessa» e perfino il linguaggio che, sacrificando il particolare,
diviene un''insormontabile barriera che separa l'essere umano dalla realtà della vita»,
rendendo di fatto impossibile ogni comunicabilità «dell'esperienza profonda». Cangiano individua così ne L'arie del persuadere l'«atto estremo del modernismo prezzoliniano», l'opera nella quale l'intellettuale sfrutta «a proprio vantaggio il crollo dell'idea di
verità oggettiva» per creare quella «hase di consenso alle proprie convinzioni» che gli
consente di prendere autorevolmente posizione su questioni politiche, sociali e culturali. G su queste premesse che Prezzolini approderà a «L,a Voce» e si affermerà come
«figura decisiva del Novecento intellettuale italiano».
La presa di coscienza dell'erosione definitiva dei presupposti oggettivi dell'interpretazione è una delle chiavi di lettura anche dell'esperienza critica di Ardengo Soffici,
ì1 quale accede al dibattito sul modernismo attraverso le avanguardie artistiche italiane e francesi, leggendo nell'impressionismo «una frammentarietà conoscitiva» ben
espressa da quella «cedevolezza delle masse plastiche» e quella «tremulità della luce»
che sono già manifestazioni dell'essenza fluida della vita. Centrale nelle riflessioni
dello scrittore è il concetto di Stile, inteso come «capacità del genio di condurre il
nichilismo di partenza a Erlebnis», nucleo chiave delle opere narrative di Soffici che si
manifesta, nel periodo tra la Grande Guerra e l'avvento del fascismo, come strumento in grado di esprimere «una precisa tradizione nazionale». Alla fluidità della vita,
Soffici oppone «un controcanto costante, modulato sul concetto di "popolare" e poi
di "italiano"», che lo porta a interpretare la guerra ai tedeschi come lotta a ciò che è
astratti) e alieno rispetto alla «coscienza popolare e nazionale» italiana, onde la sconfitta di Caporetto si configura simbolicamente come frantumazione dell'ordine sodale
della trincea e affermazione degli elementi propri di quella «catena metonimica della
"disgregazione"» che è tipica della modernità. Di qui l'adesione all'ideologia fascista
come equivalente politico di un'idea di Stile inerente a una tradizione come quella
italiana che, in realtà, «è antimoderna perché della modernità rifiuta i concetti [...] gemelli di materialità e astrazione». Palazzeschi, invece, risulta l'unico autore trattato da
Cangiano ad aver spinto «il pedale ciel nichilismo fino alle sue estreme conseguenze»,
aspirando a un'arte per la quale «ogni oggettivazione [...l rientra in un processo nevrotico teso a sostituire al reale un'immagine astratta e costrittiva di questo». L'elogio della fluidità della vita come scorrere inarrestabile, la perdita irrimediabile di un centro
e uno strumento linguistico ormai ridotto a simulacro consentono il proliferare nelle
sue opere poetiche e narrative di una molteplicità di voci differenti e spesso discordanti che si presentano per ciò che realmente sono, ovvero «costruzioni ideologiche
fondate ognuna sul proprio retroterra culturale o stereotipo». La figura emblematica
di Perda, personaggio «estraneo a qualsiasi calcificazione identitaria», che costringe a
mettere «in crisi le capacità formative degli uomini» in quanto inadeguate a «definire
l'indefinibile», rivela come la crisi modernista finisca per trascinare nel suo vortice le
stesse «norme e gerarchie del reale».
Negli ultimi due capitoli, sono presi in esame alcuni esponenti del «moralismo
vociano», impegnati i dar forma a una loro personale reazione nei confronti di quello
stesso «divenire a dialettico» estraneo a «ogni ricomposizione razionale o morale». Se
Soffici e Palazzeschi avevano colto proficuamente la portata rivoluzionaria delle nuove
istanze moderniste, altri autori si oppongono a questa prospettiva, volgendo lo «sguardo proprio verso quella verità che il nuovo orizzonte ha posto in crisi». Boine è un
rappresentate autorevole di quel «modernismo religioso» che non è fenomeno differente da ciò che la critica letteraria definisce propriamente mo>aernonio, ma che anzi ne
è «il risvolto sul terreno della Dottrina», una sorta di «cartina di tornasole teologica di
quella speculazione filosofico-letteraria che è il modernismo tout court». Si delineano
così i tratti di un'esperienza intellettuale che., nella sua complessità, assume l'aspetto di
un compendio «delle tematiche connesse alla Krisis gnoseologica e culturale vissuta da
un'intera generazione» di fronte al «crollo di ogni gerarchia logica», alla «percezione di
un fluire senza posa», al «decadimento di ogni razionalità» e alla «perdita dell'identità
individuale» del soggetto, Le coppie oppositive fede/ragione, vita/codice, particolare/
universale — vere e proprie ferite non chiuse nell'esperienza intellettuale dello scrittore
ligure — sono emblematiche di quel tentativo di arginare lo sgretolarsi di una realtà che
si fa sempre più fluida e inconsistente, e che trova, nelle sperimentazioni liriche dei
Frantumi, la sua manifestazione artistica più felice. Diverso è l'approccio di Jahier, il
quale identifica nella comunità valdese delle Alpi la spinta di una moralità religiosa in
grado di opporsi alla disgregazione «sociale, morale e conoscitiva, creata dallo sviluppo industriale e dal lavoro salariato», considerati come causa prima del «decadimento
delle certezze ontologiche» in atto. Se il mondo contadino è custode «dell'antica ottica
religiosa», il denaro e la divisione del lavoro — fondamenti stessi dell'industrialismo –
contagiano la vita e la assoggettano «in funzione del guadagno e del circolo della produzione». F l'esperienza straniante di Gino Bianchi:, che si proietta sullo schermo della
guerra nella forma della «visione parziale, segmentata, "specializzata"» concessa ai soldati sul campo di battaglia, spietato corrispettivo della marginalità subita dal lavoratore
in fabbrica. Di qui l'elogio della dimensione contadino-montanara del popolo in armi
protagonista di Con mc e con gli alpini, contrapposta a quell'Italia operaia e borghese che
risulta ormai irrimediabilmente contaminata dall'industrialismo.
Nella sezione finale del volume, dedicata a Slataper e Michelstaeder, si rileva come
il primo, di fronte a quella , «Krisis intesa come assenza di certezze e fondamenti» che
ben si incarna nella fisionomia stessa della città di Trieste, ipotizzi di «conferire significato stabile alla realtà mediante un imperativo morale», rivendicando le prerogative di
un intellettuale che, «preparato e sceso nell'agone della vita pratica«, possa «recuperare
un concreto ruolo attuativo» definendo la prospettiva etica alla quale l'intera società
deve aspirare. Slataper si oppone così alla frammentazione modernista, identificando
nel dovere il mezzo per risanare la frattura fra individuo e mondo: scaturisce da qui la
partecipazione volontaria alla prima guerra mondiale, evento epocale capace di offrire
ai cittadini un «soprasenso religioso-morale» senza precedenti. Michelstaedter, invece,
c forse l'unico intellettuale del tempo «che riesca a riportare la questione teoretica al
livello della sua socializzazione». Per lui le certezze tipiche del vecchio orizzonte culturale non sono scomparse, ma sorgono «dal relativismo stesso, cioè dalla necessità di
riarticolare tale relativismo»: grazie alla presa di coscienza del superamento dell'idea
di imitazione e della conseguente proliferazione di stili tipica del modernismo, lo scrittore giuliano coglie «il legame fra il modus cogitandi modernista e l'atomizzazione sociale in atto», identificando «il modernismo come l'ideologia egemonica di una precisa
fase storica» primonovecentesca, nella quale anche i «vari tentativi del pensiero borghese di ricostruirsi un fondamento stabile [...] si rivelano parte della stessa operazione
culturale». Michelstaedter è tra i primi intellettuali a comprendere come «tanto la crisi
valoriale descritta dalla prospettiva nichilista, quanto le risposte a questa, siano in realtà
i risvolti culturali di una crisi sociale, e siano entrambe finalizzate a proteggere lo status
quo». L'esperienza intellettuale di Michelstaedter è tra le più penetranti del periodo,
proprio perché in grado di esprimere «una capacità di resistenza storica al sistema delle
astrazioni del suo tempo»: Cangiano, sulla scia di Asor Rosa, identifica ne La persuasione
e la rettorica l'opera «più eccezionale nel canone delle grandi opere della letteratura
italiana», l'esito probabilmente «più anomalo del pensiero borghese», che qui, per la
prima volta, «fronteggia la struttura della propria alienazione», non potendo più «continuare oltre senza rifiutare sé stesso».