Recensioni / Una modernità periferica

Famoso per la sua abilità nel confondere i generi, Jorge Luis Borges la spiegava come “timidezza” “Il gioco irresponsabile di un timido che non ebbe il coraggio di scrivere racconti e che si divertì a falsificare storie altrui”, scrisse della “Storia universale dell’infamia”, suo primo libro di successo. Se vogliamo, anche questo studio sulla Buenos Aires di quegli anni Venti da cui il Borges scrittore prese le mosse è un’opera che condivide un’analoga vocazione di confine. La sua autrice è Beatriz Sarlo, docente di Letteratura argentina del Ventesimo secolo e direttrice di quella rivista letteraria Punto de Vista, che è stato un noto laboratorio di riflessione della sinistra argentina post-marxista. L’anno di pubblicazione dell’originale in spagnolo è il 1988: momento di crisi massima delle speranze forse un po’ ingenue che la società argentina aveva riposto nel governo di restaurazione democratica di Raúl Alfonsin, e però anche occasione di un necessario ripensamento sulle particolarità della modernizzazione creola. Ma, come spiega l’introduzione, in quel momento la Sarlo era quasi decisa a lasciar perdere la sua avventura nella critica letteraria. Delusa per la pochezza di risorse, vie e soluzioni che questa disciplina offriva nell’Argentina dell’epoca. Poi, racconta, venne la scoperta di due classici della sociologia urbana come “Fin-de-siècle Vienna” di Carl Schorske e “All that is solid melts into the air” di Marshall Berman. Ma la voglia di fare un’analisi analoga della modernità di Buenos Aires dovette fare i conti con la consapevolezza del carattere periferico della metropoli platense: perifericità, peraltro, che negli argentini va oltre la semplice constatazione geopolitica, per caricarsi di un ambiguo significato esistenziale a metà tra il vezzo e il rimpianto. “Deliberatamente”, spiega la Sarlo, “ho scritto un libro ibrido su di una cultura (quella urbana di Buenos Aires) anch’essa ibrida. Non so a che genere di discorso appartenga questo libro: se risponde al canone della storia culturale, della intellectual history, della storia degli intellettuali o delle idee. Questo mi preoccupava poco mentre lavoravo; ma, allo stesso tempo, avevo una certezza: usavo alcune delle strategie della critica letteraria disconoscendo le sue regole più strette: avevo imparato a leggere in un certo modo e non potevo, né volevo dimenticarlo. Questo era tutto”. Il racconto inizia dunque con la Buenos Aires degli anni Venti, alle prese con l’avvento della cultura di massa. Continua con le “risposte, invenzioni e dislocamenti” provocati dallo scontro tra la modernità e le identità ancora sopravviventi della vecchia Argentina rurale. Uno scontro, tra l’altro, di cui un terreno privilegiato è quello del “dire e non dire”, tra erotismo e repressione. “Il miele della nostalgia non ci piace e vorremmo vedere tutte le cose come se fossero nella loro prima fioritura”, è la citazione da Borges che apre il quarto capitolo, dedicato all’avanguardia che nasce da questo scontro e alle sue utopie. L’utopia artistica porta all’utopia politica, e il capitolo sulla “Rivoluzione come fondamento” analizza appunto come il mito sovietico arrivò e fu digerito in riva al Plata. L’utopia politica rimette in campo la marginalità, esaminata nel capitolo sesto su Raúl González Tuñon. I marginali diventano così il soggetto centrale della rappresentazione artistica, e infine la riflessione politica e aristica sulla marginalità in una terra essa stessa marginale per vocazione geopolitica si fa a sua volta immaginazione storica. E Perón è alle porte.