Sono passati cinque anni più di
un secolo dal
giorno del luglio del 1915 in
cui il ventisettenne Fernando
Pessoa si rivolgeva per lettera e
con la debita deferenza a un rinomato astrologo inglese dell'epoca, Alfred H. Barley. Il mittente
avrebbe desiderato ricevere da
lui il tema natale di Francis Bacon, per rintracciare gli eventuali indizi zodiacali della capacità
di scrivere in stili diversi dal proprio che accomunava il filosofo
allo stesso Pessoa (che accludeva il proprio oroscopo, per i debiti confronti).
Chissà in quale casa doveva essere Saturno per determinare la
peculiare inclinazione all'"eteronimia": «pubblicare, sotto vari
nomi, varie opere di varie specie,
in contraddizione le une con le
altre». Pessoa l'ha descritta e approfondita in pagine e pagine
della sua opera e dei suoi scritti
privati. Spesso frammentari e
sempre sorprendenti, questi passi sono stati selezionati e riuniti
da due studiosi portoghesi in
una raccolta di cui ora esce l'edizione italiana: Teoria dell'eteronimia (a cura di Vincenzo Russo,
Quodlibet, pagg. 300, euro 20).
Per "eteronimia" si dovrebbe
intendere l'attribuzione di un
proprio scritto a una persona esistente; dell'essere esistenti Pessoa aveva però una concezione
del tutto personale. L'aveva sviluppata sin dall'infanzia, quando dava nomi e personalità ai rocchetti di filo (più tardi ai pezzi degli scacchi) e nel piacere del gioco era implicato anche il dolore
per l'effettiva inesistenza dei
suoi compagni (in Pessoa la parola "dolore" ricorre almeno quanto "nome"). A sei anni scriveva
lettere a sé stesso nei panni di un
certo "Chevalier de Pas", primo
dei centosei "eteronimi" inventariati da critici e biografi nell'opera e nella vita di Pessoa. A diciotto anni appuntava: «Cos'è il nome? Se ci pensate, assolutamente nulla». A diciannove: «Ho coltivato in me migliaia di filosofie e
mai due concordavano tra loro
come se fossero reali». A venticinque malediceva «l'Inferno di
essere Io». A ventisei scriveva prima un'"Estetica dell'artificio"
(«A volte non mi riconosco, tanto
mi sono collocato all'esterno di
me stesso») e quindi un'"Estetica
dell'indifferenza": «Avere il pudore di noi stessi; capire che in
nostra presenza non siamo soli».
In quello stesso 1914 gli "apparvero" in rapida e delirante successione tre figure di letterati: Alberto Caeiro, Ricardo Reis e Alvaro
de Campos. Saranno gli autori
del maggior numero di opere di
Pessoa, gli "eteronimi" di cui lui
si proclamava il semplice "ortonimo" (e, almeno nel caso di Caeiro, anche allievo devoto). Non solo distinti ma proprio diversi,
ostili e attorniati da seguaci e
comprimari (tutti rigorosamente immaginari), «in ciascuno di
loro ho messo un concetto profondo della vita, diverso in tutti e tre». Per questo non si tratta di
pseudonimi. Uno pseudonimo è
l'autore stesso, con un nome diverso. L'eteronimo invece è
un'«individualità completa»
creata dal suo autore: come un
personaggio, solo che, piuttosto
che agire su una scena, scrive e
pubblica. Nel farlo però è sincero quanto Re Lear lo è nell'esprimere la propria personalità, che
non è quella di William Shakespeare.
Specificato che lo stesso Pessoa non si nascondeva di avere
qualche rotella fuori posto (si diagnosticava isteria con tendenze
nevrasteniche di contorno), la
sua posizione non poteva essere
più lontana da quella dell'egomania contemporanea proposta da
autofiction che vengono intese
perlopiù come occasioni confessionali e, dernier cri, di denuncia
vittimistica. Oggi l'io è sempre
Pio, o almeno così crede; il lettore crede a sua volta necessario
credere non tanto a ciò che legge
ma alla corrispondenza di ciò
che legge con la vita e l'esperienza di chi ha scritto. Persino Elena
Ferrante ha dovuto arrendersi e
dopo averlo negato per anni ha
infine ammesso di non chiamarsi realmente così ma di essere lo
pseudonimo di qualcuno (ed è
l'unica cosa che di lei si sappia
con certezza). Lo pseudonimo
ha ragioni pratiche o ludiche, come pare essere il caso del "Filelfo" che ha firmato la recente fiaba per Robinson. Frequente, molto più che non si dica, è casomai
l'eteronimia rovesciata del ghostwriting, dove a comparire non è
chi ha scritto ma la persona che
firma un testo (testo che magari
si presenta come una spontanea
e sincerissima messa a nudo di
sé). Più cercano di apparire reali
e più fantasmatici si rivelano.
Ben più onesto appare in confronto Pessoa: «Quando parlo
con sincerità non so con che sincerità parlo»; e, poi, maestoso:
«Se a volte sono coerente, è solo
per incoerenza verso l'incoerenza». Paradossi? Possono sembrarlo, ma Pessoa era assai più snob
del da lui detestato Oscar Wilde
(si noti però che Pessoa ostentava un'omofobia peraltro assai sospetta): «Nessun uomo superiore si abbassa al punto da dare
all'opinione altrui un'importanza tale da preoccuparsi di contraddirla». La versione pessoana dell'Ùbermensch nietzscheano
è che «Per l'uomo superiore non
esistono gli altri. Egli è l'altro di
sé stesso». E quindi, che farne
del dolore? Pessoa consiglia diversi metodi, tra cui spicca quello del «sadismo interiore, tutto
masochista», di godere della propria sofferenza come se fosse quella di qualcun altro. È la teoria da cui rampolla la quartina
che è l'emblema - giustamente
stranoto - di tutta la produzione
di Pessoa: «Il poeta è un fingitore
/ finge tanto pienamente /che sa
finger sia dolore / il vero dolor
che sente».
Contro la rinata mitologia
dell-essere sé stessi" e dei deliri
identitari che minacciano di soffocarci, la semiotica a noi contemporanea scopre che il soggetto che parla non è "un" soggetto.
Dietro alla maschera della persona si agitano moltitudini, e Pessoa lo sapeva, quando diceva
che mistici indiani di duemila anni fa, Confucio, lo scopritore del
fuoco, l'inventore della ruota e il
primo filatore della seta avevano
tutti contribuito al suo essere attuale. Sarà appena il caso di aggiungere che "maschera" è il significato originario di "persona"
e che "persona" è il significato
da nome comune portoghese di
"Pessoa". Davvero, un ortonimo
parlante.