Prendete venticinque tra le più note poesie dei
massimi autori della letteratura italiana degli ultimi due
secoli (Foscolo, Manzoni, Leopardi, Berchet, Mercantini -
quello della Spigolatrice di
Sapri - Carducci, Pascoli,
Montale), che sono inevitabilmente i testi su cui hanno trascorso ore di studio generazioni di studenti, e rileggetele
insieme alla voce sghemba,
polemica e decentrata che Alberto Piancastelli ha adottato
in Pignolerie, appena pubblicato da Quodlibet.
L'impatto è frastornante, si
sorride mezzo perplessi e (o
ma) contemporaneamente ci
si sente liberati. Il motivo?
Presto detto. Il critico dei testi
canonizzati nei manuali è un
matto pignolo, o è pignolo perché è matto. Non se ne perde
mezza, fa le pulci a tutto e nella sua petulante acribia sbaglia tutto, ma fa anche sbagliare tutti i grandi della letteratura, che diventano goffi venditori di fumo. Il suo scopo, dichiarato nella premessa, è
quello di svelare «contraddizioni, incongruenze ed altri
gravi difetti che rendono le vicende narrate illogiche e molto poco credibili». I poeti insomma prendono topiche a
quintalate, abituati come sono a dire cose strampalate e
senza costrutto. Se sono rimasti fino ad ora dei monumenti
è perché i loro lettori sono "distratti o superficiali", gente
che non bada più a quello che i
grandissimi hanno scritto. E
allora ben venga il pignolo
estremista che si sobbarca
l'onere di «segnalare l'errore,
in modo che l'autore, se mai dovesse risorgere, possa emendarsi».
Gioco possibile
Ebbene, questa è la cornice del
testo, quella che non bisogna
perdere di vista per evitare allucinanti fraintendimenti, di
cui potrebbero essere vittime
soprattutto i compunti docenti dei licei. Se si fa così, se cioè
si legge Piancastelli come se
ascoltassimo un simpatico
matto che prende tutto alla
lettera e si serve della logica
mescolata all'inesorabilità
scientifica per far saltare in
aria gli ordini prestabiliti, allora si può provare l'effetto a
cui si accennava: la liberazione dal peso immane di dover
considerare sacre ed automaticamente inviolabili le parole
dei poeti «da esame di maturità», come se la letteratura fosse solo e sempre una cosa serissima e non anche un gioco
in cui tutto è possibile, compresi i colpi bassi.
Veemente genio
Tra i più esposti agli attacchi
di Piancastelli spicca il declamatorio Ugo Foscolo. Nei versi di In morte del fratello Giovanni il veemente genio del
poeta promette al fratello, suicida per debiti di gioco, di andare un giorno a sedersi sulla
tomba dove si trova il suo "cenere muto". La parola "cenere" lascia supporre che Giovanni sia stato cremato, perché in due anni, quelli che separano la sua dipartita dalla
composizione del sonetto, un
corpo inumato non diventa
cenere. Ma se è così, ragiona il
pignolo, i suoi resti sono deposti in un'urna cineraria, che, a
suavolta è collocata in "piccoli loculi impilati", le cui lapidi sono sovrapposte verticalmente. Foscolo dunque «promette di sedersi su una superficie verticale», in posizione
«perpendicolare alla parete
con la schiena parallela al suolo e il sedere poggiato sulla lapide del fratello». Postura incongrua, da potersi mantenere solo se imbragato, che il poeta osserverebbe oltretutto
"gemendo" e non riuscendo
ad evitare di porre il fondoschiena sulle altre lapidi confinanti. Conclusione: Foscolo
scrive cose senza senso.
Come, d'altra parte, fa in A
Zacinto, in cui scrive di non
voler più toccare "le sacre
sponde" dove il suo corpo
"fanciulletto giacque". Ma se
giacere significa essere sdraiati su una superficie orizzontale o debolmente inclinata,
ne consegue che Foscolo dichiari di voler mettere piede
nella sua isola natale soltanto
arrampicandosi su per le scogliere, evitando gli approdi più
comodi e piatti.
Altrettanto preoccupante è
lo stato confusionale di Giosue Carducci. Nella Canzone
di Legnano, dopo aver affermato che Sta Federico imperatore in Como, fa arrivare il
suo messaggero a Milano attraverso Porta Nuova, passaggio naturale per chi proviene
da Monza o Bergamo e non
dalle nostre zone. In aggiunta
il messaggero percorre le vie
"a briglie abbandonate", contemporaneamente chiedendo
al "Popolo di Milano": «Fatemi scorta al console Gherardo». Si tratta di una dozzina di
sillabe, ma «ci vogliono fra i 3 e
i 4 secondi per dirle tutte, e in
quel tempo un cavallo al galoppo fa non meno di cinquanta metri». Il popolo avrebbe dunque
dovuto sentire mozziconi di
parole, «come se oggi uno passasse in Vespa ai 60 orari e
senza fermarsi urlasse alla
gente che incrocia per strada:
"Accompagnatemi dal questore". Come minimo verrebbe
preso per matto».
Non da meno
Non da meno, del resto, èAlessandro Manzoni, che nel coro
dell'atto II del Conte di Carmagnola, afferma che "S'ode
a destra uno squillo di tromba;", cioè che un suono viene
sentito dai soldati" che stavano nello schieramento di destra", ma subito dopo ammette che "a sinistra risponde uno
squillo:", contraddicendosi
palesemente, perché, se i soldati di sinistra rispondono, significa che lo squillo non è stato percepito solo a destra.
E Giacomo Leopardi? A cosa pensare quando nella
Quiete dopo la tempesta sostiene che "chiaro nella valle il
fiume appare"? Ora l'unico
fiume in prossimità di Recanati, il Potenza, è «poco più di
un rigagnolo» con «una portata di sei metri al secondo». Per
poter essere visto con chiarezza da casa Leopardi a tre chilometri e mezzo di distanza,
avrebbe dovuto essere tracimato di due chilometri e mezzo per lato, il che lascia intendere che tutta l'area fosse coperta d'acqua, compreso il
santuario di Loreto, «per non
parlare di Pesaro ed Ancona,
di Spalato o di Dubrovnik».
Qual è il punto d'arrivo dunque? Che, allo stato attuale,
tutti i poeti analizzati hanno
ancora molto da lavorare.