Recensioni / Quelle morti favolose di imperatori e condottieri

Dovete sapere che i nostri antenati greci e romani, popoli cui dobbiamo quel che siamo, nutrivano un rapporto con la morte molto particolare. Ad essi tirare le cuoia non destava soverchio terrore a condizione, tuttavia, che il trasloco dalla città dei vivi in quella di Dite assumesse i connotati di una bella gita fuori porta. La loro aspirazione era, in altri termini, quella di crepare di una bella morte, di una morte sincera e gloriosa. La «morte favolosa» era il climax di una intera esistenza, la somma perfezione nel senso di «percifere», portare a compimento.
Nulla a che vedere insomma con gli anonimi e dolorosi congedi da questa valle di lacrime cui siamo costretti noialtri contemporanei. L'uomo moderno subisce la morte perché la teme, considerandola qualcosa che non gli appartiene, un incidente di percorso. Non ha con essa una relazione costruttiva. La trascura, sa solo subirla e preferisce, quando arriva il momento, lasciarla in mano a professionisti in camice bianco.
Una differenza abissale con gli antichi consapevoli, al contrario, che la morte fa parte della vita, ne è componente essenziale e consustanziale. Lo spiega al meglio il libro Morti favolose degli antichi (Quodlibet Ed., 385 pagine, 16 euro) di Dino Baldi.
«I greci e i romani sono stati dei grandi meccanici del mondo, esperti, curiosi, e appassionati; e soprattutto con la giusta dote di spregiudicatezza e intraprendenza - argomenta Baldi -. Se una cosa non tornava la si faceva tornare, in un modo o in un altro, e quindi se una morte non corrispondeva alla vita di cui era il termine sommo, o all'idea che ci si era fatti di quella vita, la si adattava correggendo con la parola (bastava generalmente quella) l'errore della natura e del caso».
Per questa ragione «tutti i potenziali defunti di un certo livello pianificavano la loro dipartita accuratamente fino da ben prima che si verificasse, cercando di corrispondere in tutto e per tutto all'aspettativa che si era creata nella loro cerchia sociale«. La capacità di affrontare con coraggio e dignità l'arrivo della Grande Mietitrice è, insomma, il migliore indicatore del livello di civiltà di un'epoca.
E di morti «originali», così come elencate nel libro di Bardi, ce n'è un fottìo a dare un'occhiata alla sola storia greco romana. Qualche esempio. Plinio il vecchio, sorpreso dall'eruzione del Vesuvio cui si era avvicinato per osservarla meglio, piuttosto di fuggire in maniera scomposta, preferì lietamente stendersi e aspettare il proprio destino. Il vecchio e malato Epicuro, s'immerse in una vasca di acqua calda e morì bevendo vino schietto. Il poeta e noto ubriacone Cratino schiattò di crepacuore a novantasette anni vedendo i barbari soldati spartani rompere un orcio di vino davanti ai suoi occhi. L'imperatore Ottaviano Augusto, e saliamo di grado, si spense dolcemente nel suo letto accudito e per questo bisogna approfittarne. dalla moglie Livia, dopo essersi fatto sistemare i capelli e le guance cadenti (stile "funeral house") e aver chiesto agli amici se avesse ben recitato la commedia della vita. Quella di Vespasiano, al contrario, fu una morte poco senechiana: se ne andò all'altro mondo a causa di un attacco di diarrea. Lo fece tuttavia con molta dignità, in piedi, davanti ai suoi ospiti, da imperatore. Ancora. Inseguito dai suoi sicari Erennio, un centurione e Popilio un tribuno militare, il grande Marco Tullio Cicerone (ormai rassegnato al suo destino) ordino di posare a terra la lettiga e attese che i suoi assassini lo raggiungessero. Con il mento appoggiato sulla mano sinistra, in un suo atteggiamento solito, li guardava in silenzio. «Aveva il volto stanco e segnato; i capelli sporchi e arruffati» scrive Bardi. Protese il collo fuori della lettiga e quasi tutti si coprirono gli occhi quando Erennio lo colpì". Nella sua lettiga fu trovata la Medea di Euripide.
Nel libro di Bardi vi è anche la descrizione accurata di scomparse decisamente curiose. Come quella di Platone passato a miglior vita proprio nel giorno del suo ottantunesimo compleanno, suscitando ammirazione per aver raggiunto il numero perfettissimo: nove volte nove. O del poeta Lucrezio, di cui si può ammirare «il cerchio perfetto di una vita in cui si nasce, si impazzisce, si scrive il De rerum natura e ci si uccide». Perché morire è più facile che nascere, diceva Seneca.