Recensioni / Scholem, il filosofo militante della mistica

Si celebra quest'oggi per tutto o quasi il Vecchio Continente la giornata europea della cultura ebraica: visite guidate a sinagoghe, concerti, degustazioni e scorci di un mondo vecchio e nuovo (per informazioni su questa festosa teoria di eventi di cui è costellata anche l'Italia, rivolgersi allo 06/681621, o www.ucei.it). Qualche decina di giorni fa, invece, si è commemorato un luogo tanto simbolico quanto reale che ha sconquassato la storia più recente con la sua sola, muta presenza: il muro di Berlino.
Questa sommaria coincidenza sul calendario non sarebbe probabilmente dispiaciuta a Gershom/Gerhard Scholem, uno fra i maggiori intellettuale dell’ebraismo di questo secolo, nato nella città tedesca nel 1897 e morto a Gerusalemme nel 1982. Di lui le edizioni Quodlibet (via Padre Matteo Ricci 108, 62100 Macerata, www.quodlibet.it) stampano ora due interessanti interviste: Scholem/Shalom. Due conversazioni con Gershom Scholem su Israele, gli ebrei e la qabbalah, a cura di Gianfranco Bonola, introduzione di Friedrich Niewohner (pp.132, L. 22.000).
Scholem è stato un grande filologo che ha restituito all'ebraismo un patrimonio culturale e religioso rimasto latente per secoli, quello della mistica e delle sue inesauribili suggestioni. Ma è stato anche un intellettuale militante, a volte acceso e a volte sconsolato, che ha ripensato l'ebraismo nel confronto con i tempi e soprattutto ha vissuto di persona le proprie idee, trasformandole in esperienze. Tutto questo ed altro si racconta sul filo delle domande postegli.
Nato in una famiglia ebraica berlinese dalle aspirazioni assimilatorie sorte sulla scorta dell'emancipazione, Scholem capì ben presto che la secolarizzazione era una sfida che l'ebraismo - in quanto fede e identità - doveva cogliere senza illusioni, sapendo che essa è affrancamento ma anche rischio. L'assimilazione era un pericoloso autoinganno, racconta lo studioso e racconta anche tragicamente la Storia, di lì a qualche anno.
La scelta sionista di Scholem, guardata con diffidenza quando non con scherno da familiari e amici (fra i quali il grande Walter Benjamin), fu per lui "un'esigenza di sincerità" nel confronto con se stessi e con il mondo esterno. A 26 anni egli lascia la Germania diretto all'yishuv, la società ebraica in costruzione nella Palestina sotto mandato britannico. Ma anche qui Scholem dimostra una straordinaria anarchia intellettuale, che ne farà sempre figura solitaria tanto sul piano politico quanto su quello culturale. Egli rifiuta infatti sia l'illusione degli ebrei berlinesi che rinnegano la propria identità per compiacenza verso il mondo esterno, sia un'identità che sia passivo rispetto della tradizione.
Scholem non fu un ebreo osservante; egli si avvicinò alla qabbalah (non a caso dopo gli studi di matematica) perché insoddisfatto da quella lettura monolitica dell'ebraismo che ne faceva un sistema fondato esclusivamente sul rispetto e lo studio dei precetti. Il suo immenso lavoro sui testi della tradizione mistica, condotto ancora una volta in una solitudine a tratti beata a tratti tormentosa, ha dimostrato che questo patrimonio di immagini e parole è stato per secoli e millenni un'anima pulsante e pensante.