Pur muovendosi, come
la Nottola di Minerva, dopo il crepuscolo, in costante e
irriducibile sconnessione con
la propria contemporaneità,
la conoscenza delle strutture
più intime della realtà cui la filosofia accede è tanto più urgente in momenti storici particolarmente critici e confusi:
nel disorientamento dell'oscurità notturna, il suo sguardo panoramico permette di
non perdersi, ritrovando i riferimenti astrali necessari a proseguire il cammino. Così è avvenuto durante l'attuale pandemia, durante la quale la filosofia si è esercitata a osservare il mutare delle relazioni, sia
per indicare opportunità nascoste sia per avvertire rispetto a pericoli troppo facilmente trascurati sotto la pressione dell'emergenza. Uno studio prezioso, volto a discernere le stelle fisse da quelle mobili. E, come nell'aneddoto riguardante l'antico Talete,
mentre si orienta volgendo lo
sguardo in alto, al filosofo può
capitare di inciampare in
qualche sasso o di finire in un
pozzo, mentre il senso comune e ottuso impersonato da
una serva trace lo deride.
Si pensi allo scetticismo,
perfino allo scherno, di cui è
stata fatta bersaglio la riflessione di Giorgio Agamben in questi mesi di pandemia, mentre
ci invitata a osservare i rapporti di potere che finalmente hanno rivelato la propria natura
nel contesto emergenziale, e
ci metteva in guardia dall'accettare in modo acritico le disposizioni definite d'urgenza
ma potenzialmente inattaccabili quando l'urgenza si concluderà. Il filosofo interroga
l'ovvio, ciò che viene incontro
(ob-) mentre si è sulla via (via),
ma non si lascia da esso sviare,
pretendendo piuttosto che gli
eventi rivelino la loro provenienza, il loro significato, la loro direzione. La derisione che
uno sguardo così ambizioso
subisce rivela la povertà cui si
riducono coloro che rimangono imprigionati nell'ovvio; ma
altrettanto ottuso è·chi trasforma in modo acritico la voce
del filosofo - studioso in ricerca - in una volgare questione
politica o, peggio, in tifo, come
pure è stato fatto.
Facendo leva sulla paura e
offrendo la medicina come
nuovo orizzonte messianico,
sostiene Agamben, si è predisposto un ordine di saperi che
giustifica un nuovo ordine politico: un nuovo ordine ancora tutto da definire, ma per il
quale lo stato di emergenza
ha preparato il terreno, riducendo a pura formalità le procedure di garanzia che sostengono le nostre democrazie. La
riflessione agambeniana si è
mossa contro la strumentalizzazione della paura e contro
la sacralizzazione della scienza, per mettere in guardia dal
pericolo di accantonare l'ormai obsoleto Stato liberal-democratico preferendogli un
dispotismo tecnologico-sanitario. Se l'accusa mossa da
Agamben nei confronti della
strumentalizzazione della
paura è criticabile ma può essere accolta, meno condivisibile è l'uso che, con spirito da
tifoserie, si sta facendo di tali
riflessioni, in particolare offrendo come esempio di liberazione dalla paura il caso politici ultraliberisti, populisti,
nazionalisti tutt'altro che difensori di libertà e diritti umani, sociali e civili, i quali piuttosto agitano quotidianamente
la paura come una clava contro tutto ciò che ritengono minimamente anormale. Ed è altrettanto curioso che l'elogio
a simili politici sia sostenuto
con la ragione che essi non si
sono sottomessi a un'emergenza che, invece, in Europa
ha funzionato come via d'accesso per il rafforzamento della «legge mercatista», quando
è piuttosto vero il contrario: là
dove si è trascurata la gravità
dell'epidemia, lo si è fatto per
conservare il potere a fronte
di misure impopolari, ma soprattutto per salvaguardare
l'ordine economico, proprio
come in Europa ci si è affrettati a riaprire - contro il parere
scientifico - fabbriche e uffici
per rispettare le urgenze di
economia e mercato. Se nell'emergenza il rischio innegabile è quello di forzare i vincoli
Costituzionali per gestire una drammatica situazione sanitaria, non si chiudano gli occhi di fronte ai casi in cui quotidianamente essi sono piegati in funzione di una retorica
della concorrenza che, dopo
aver minacciato ogni ordine
di diritti, si declina oggi in un
perverso nazionalismo.
Se il contributo offerto da
Agamben non va dileggiato,
non è saggio nemmeno tesserne l'elogio sperticato: conviene piuttosto accoglierne gli
aspetti stimolanti, sempre in
maniera critica. Si pensi, per
esempio, al carattere spesse
volte apodittico degli interventi degli scienziati indotti
in ciò dall'esposizione mediatica; ma questo non dovrebbe
condurre a denigrare la scienza bensì a riscoprirne il vero
volto e la funzione che ricopre
nelle nostre democrazie a patto che non si trasformi in oggetto di fede. E una simile riflessione è funzionale anche a
uno studio dei vincoli tra i saperi e le relazioni di potere
che ci legano.
Dal punto di vista giuridico
e politico, se da un lato gli interventi di Agamben trascurano in maniera insostenibile le
pur rilevanti differenze fra i casi dell'Europa occidentale,
quelli dell'Europa orientale,
quelli americani e quello cinese, come si può non accogliere l'invito a sorvegliare costantemente le manovre del potere, affinché ciò che è dichiarato emergenza non si tramuti
in normalità? Per Agamben è
già cosa fatta, e chissà se non
ha ragione a enfatizzare un
processo che nelle nostre democrazie liberali è sfumato e
quindi subdolo al punto di far
passare per 1ungaggine il confronto parlamentare sulle prerogative presidenziali?
Ciò che è al centro delle denunce avanzate da Giorgio
Agamben durante questa pandemia è lo stato di eccezione.
Se esso è certamente istituito
da qualcuno, la complicità è
orizzontale e distribuita fra
chi ne è responsabile pur non _
conoscendo la destinazione finale delle proprie decisioni e
chi accetta di esserne sottomesso. E questo avviene perché lo stato di eccezione non
è una pienezza di poteri, di
cui sono chiaramente riconoscibili i detentori, bensì, prima di tutto, lo svuotamento, il
decadimento del normale ordine legale, che può essere decretato per avere mani libere
sugli interventi da intraprendere, ma nel cui spazio vuoto
ogni esito è possibile e imprevedibile: mutano l'ordine e il
tenore delle relazioni, e possono anche trasformarsi le istanze del potere sovrano, restringendosi dal popolo rappresentato in parlamento a personalità forti o a istanze impersonali. Ma particolarmente interessante è l'aspetto ontologico di questa questione, che i
tifosi da Destra mancano accuratamente di rilevare: nel
vuoto dell'eccezione, muta il
significato delle nostre vite,
l'essere umano viene spogliato della propria dignità per divenire spazio transitabile per
tutti coloro che vogliono impoverire le relazioni interpersonali. Così decade il senso
della collettività, in un oscuramento delle responsabilità
pubbliche e in un'enfasi esasperata delle responsabilità
personali; inoltre l'altra persona non è un prossimo fragile e
bisognoso di aiuto, ma un sospetto untore; la relazione è
sostenibile solo se interessata
e non minaccia la sicurezza,
sia essa sanitaria o, in senso
più ampio, biologica.
La domanda che ci consegna Agamben è: come può la
vita umana essere ridotta alla
sola dimensione biologica, alla sua sola salute corporea, alla sopravvivenza? Ed è una domanda che rimane preziosa,
perché permette di osservare
con consapevolezza e prudenza le politiche contro la pandemia, ma permette altresì di interrogarci sull'ipertrofia della
dimensione economica volta
alla soddisfazione degli impulsi più rapaci e violenti, e di
respingere completamente il
rinascente razzismo: tutte ragioni classificate sotto il concetto della sicurezza, che però
sviliscono irreparabilmente
l'essere umano.