Recensioni / Cesare Pavese, una vita controcorrente

La morte di Cesare Pavese, che una notte d'estate in un albergo di Torino ingerì una bomba di sonniferi e si tolse la vita lasciando scritto «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi», orienta da sempre gli studi critici sulle tracce della vocazione all'autoannientamento, nella vita e nelle opere. La lunga depressione che lo portò al tragico epilogo si riscontra nei nodi venuti al pettine: la marginalità sociale - occupato nella torre d'avorio dell'editrice Einaudi -, l'alienazione politica - criticato dal Pci per l'indole libera e la narrativa poco proletaria -, e la delusione amorosa - lasciato dall'ennesima donna, l'attrice americana Constance Dowling. La perdita affettiva è la sua massima angoscia, come confermano le ultime poesie di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (raccolta postuma) e la nota nel diario il 25 marzo 1950, «Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla». Ciò che devastò il 4lenne Pavese quel 27 agosto è dunque uno snodo della sua poetica.
Di recente sono usciti i contributi di Davide Lajolo Il vizio assurdo. Storia di C.P. (Minimum fax), Franco Vaccanco C.P. vita, colline, libri (Priuli & Verlucca) e Riccardo Gasperina Geroni. C.P. controcorrente (Quodlibet). Quest'ultimo saggio percorre a ritroso gli anni dello scrittore piemontese dal 1947 al 1932 attraverso Dialoghi con Leucò, Paesi tuoi, Lavorare stanca e la traduzione di Moby Dick - l'esordio giovanile scelto per identificarsi nel capitano Achab - allo scopo di testimoniare che il mito, al centro del suo pensiero, si basa sulla circolarità origine-fine: non è tanto una forma storica sorta con le civiltà ma è un assoluto atemporale che scomoda la vita, obbliga all'impegno etico fino al sacrificio di sé e fa scoprire che il nulla della morte e dell'origine della vita costituiscono un "eterno ritorno". L'intellettuale si carica dei fallimenti di tutti noi, è un "compagno di addio che ci aiuta nel percorso difficile verso la morte", secondo il critico Geno Pampaloni.
Eppure il noto è salvifico, se l'uomo non rinuncia a risalire alla propria origine. Gasperina Geroni esemplifica tale tensione nel testo L'inconsolabile dai Dialoghi con Leucò dove Orfeo stesso spiega il vero motivo per cui, nel salvare Euridice dagli inferi, si è voltato agli ultimi passi: non per errore o capriccio o eccessa d'amore ma perché nell'aldilà ha sentito ïl freddo delle cose che non sono più come prima, non più uguali al passato, così ha deciso di farla finita. «Non si ama chi è morto. Euridice morendo divenne altra cosa. Quell'Orfeo che discese nell'Ade non era più sposo né vedovo». È Pavese-Orfeo con "il morto sorriso dell'uomo che ha compreso", come il verso di una sua poesia. Le cose cambiano: nel capolavoro La luna e i falò il protagonista Anguilla, tornato alle "sue" Langhe dopo essere stato in America, è ossessionato dalla ricerca di ciò che è rimasto. I falò trasformano in cenere elementi concreti e simbolici. Il Pavese controcorrente, risalendo dalla sua notevole carriera di scrittore fino alle origini contadine di sé e della sua terra, ritrova la materia minima e l'ignoto originari, che da sempre l'avevano assillato in domande senza risposta.