È sorprendente come un libro scritto a quattro mani da uno storico del diritto romano e da un medievista
possa parlare alla nostra attualità;
ed è tanto più sorprendente se
questa attualità è attraversata da
una pandemia che ci ha costretti a
ripensare daccapo la nostra relazione con il diritto e con la natura
in un modo che pare non avere
precedenti. Eppure è ciò che accade leggendo L'istituzione della
natura, libro che raccoglie due
saggi di Yan Thomas e Jacques
Chiffoleau, recentemente edito
da Quodlibet.
In questi mesi, il rapporto con Covid19 ci ha indotti a esercitarci intorno all'elasticità del diritto, al
ruolo delle istituzioni, ma anche
sulla nostra posizione all'interno
di una natura compromessa dal
nostro intervento. Proprio in merito a quest'ultimo aspetto, si sono rinfoderati alcuni luoghi comuni, che spaziano dall'immagine
di una natura come serbatoio da
sfruttare impunemente, a quella
di una natura saggia e buona che
meglio starebbe se l'uomo si estinguesse; passando per l'idea degli
elementi naturali trasformati in
soggetti di diritto, in una relazione in cui l'uomo deve apprendere
l'insegnamento derivante dall'ordine cosmico e, di rimando, deve
garantire a tali elementi la tutela
giuridica tipica di contraenti consapevoli.
Ad accomunare questa gamma di
posizioni, la definizione della natura come un ordine stabile, eterno, dotato di un proprio valore intrinseco: di qui, sia l'estraneità
dell'uomo rispetto al contesto ambientale in cui vive, che così diventa liberamente sfruttabile, sia
il riferimento alla natura come
fonte di diritto, come dimensione
esterna e trascendente cui ispirarsi. Si tratta di una prospettiva non
così nuova e che, anzi, risale fin
dal Medioevo, epoca in cui si inizia a legare l'ordine naturale a
una volontà divina di cui sarebbe
manifestazione intangibile, invero con l'obiettivo di salvaguardare un ordine sociale e politico parimenti definito come discendente dalla volontà di Dio. Quella medievale è una novità coerente con
lo scenario culturale di cui il medievista Chiffoleau ricostruisce
le geometrie fondamentali, in particolare sottolineando la superiorità della Creazione rispetto all'ordine antropologico, sociale e politico che dalla natura deve dunque attingere il carattere dell'incontestabilità e la legittimità per
perseguire — in termini inquisitori e in termini giuridici — ciò che
prende a essere definito come
"contro natura".
Una novità, dunque, la cui rottura epistemologica è evidente se,
con Thomas, si osserva la situazione dell'antica Roma, in cui la natura, a differenza di quanto riferito dalla tradizione stoica, non è
fonte superiore di diritto, ma dimensione cui far riferimento per
dirimere problemi specifici e circoscritti. La differenza è capitale,
e permette di riflettere sulla natura intendendola come una categoria tutt'altro che eterna: una nozione storica, i cui contorni sono frutto degli ordini culturali in cui essa è pensata e, in fin dei conti, istituita. Se così stavano le cose
nell'antica Roma, la natura poteva essere assunta come insieme
di limiti fattuali impossibili da valicare, ma non per questo come
origine di vincoli morali e, tanto
meno, legali. Il mutamento di paradigma radicale che occorre durante il Medioevo è allora quello
verso una natura ipostatizzata e
santificata, i cui elementi partecipano a una volontà divina caricando la loro materialità di forza
prescrittiva.
Nella natura si prende così a ricercare concetti, definizioni, ordini,
capaci di imporsi proprio nella
misura in cui dissimulano la loro
artificialità, e capaci così di farsi
motivo di legittima esclusione e
di appropriata violenza contro
ciò che è reputato anormale, straniero, minaccioso perché innaturale. Ma la ricostruzione offerta
da Chiffoelau e Thomas risulta altresì preziosa oggi per sottrarci a
un certo integralismo ecologico,
che sovraccarica la natura di caratteri inconsapevolmente proiettati a partire dall'ordine umano. Decostruire questo gioco di specchi
è utile per intendere la natura come un insieme organico di cui facciamo indiscutibilmente parte,
che ha tempi e spazi che vanno rispettati in primo luogo non confondendoli con i tempi e gli spazi
prettamente umani, come quelli
del diritto. E questo permette di
privare di legittimità ogni discorso intorno alla liceità dei comportamenti e delle relazioni umane
che pretenda di essere assoluto e
incontestabile perché tutelato
dall'ordine naturale: ciò che, più
di tutto, è necessario, è riconoscere l'inscindibilità nell'umano di
natura e cultura, e il carattere irriducibilmente culturale della stessa definizione di natura; dal punto di vista della morale e del diritto, ci si potrà così rappacificare
con la convenzionalità sempre rivedibile delle strutture sociali,
politiche e giuridiche, sempre bisognose di essere legittimate, ridiscusse e calate nel tempo in cui esse dovranno applicarsi.