È apparso recentemente presso
Quodlibet un libro
di Pier Vincenzo
Mengaldo, I chiusi
inchiostri. Scritti
su Franco Fortini.
Io penso che sia un libro importante
per almeno tre motivi. Il primo è l'operazione editoriale in sé, di cui il libro è
portatore e da cui contemporaneamente è portato, trasmesso. Sarà fin
troppo facile, dopo le mie affermazioni che seguiranno, accusarmi di nostalgia del passato e conseguentemente di una visione retro, ovviamente separata e lontana nel tempo dal dibattito letterario e culturale dei giorni nostri. Per forza, da che parte io dovrei guardare? Verso un futuro sempre più incerto e traballante? È automatico, oltre che gratificante nella
grande maggioranza dei casi (gratificante, s'intende, per chi automaticamente lo prova e lo sperimenta), che
guardare sempre più intensamente
là dove uno ha pensato in qualche fase della sua vita di trovare le risposte
giuste alle proprie domande, si sovrapponga e s'imponga allo sguardo
stanco che nonostante tutto continua
a volgere e rivolgere intorno a lui.
Qui, però, oltre alle inevitabili motivazioni personali ed esistenziali, ci sia
una ragione storica, oggettiva, a giustificare e convalidare tale atteggiamento. È del tutto evidente - anzi,
perfettamente inconfutabile - che oggi un fattore costitutivo del ragionare
intellettuale, culturale e, sì, anche politico, politico!, consista nello stabilire
una cesura così forte con il nostro passato da sembrare un abisso insuperabile, e che perciò sia vano, inutile e
persino un po' sciocco tentare di attraversarlo o peggio di colmarlo. Che
vuol dire questo? Vuol dire, se si guarda a quanto ci circonda, - anche nella
vita vissuta, a dir la verità, oltre che in
quella del pensiero - che tutto è cominciato il giorno prima, non c'è nessuna sbarra o confine con cui confrontarsi e in caso di necessità aggrapparsi: abbiamo rinunciato, per usare
espressioni più forti, ad avere una storia, per capire perché e come siamo
nati, perché e come siamo nati così. I
chiusi inchiostri ci ricordano, dalla prima all'ultima pagine, che è (sarebbe)
vero il contrario: e che, di conseguenza, per capire come siamo e cosa vogliamo bisogna (bisognerebbe) aver
sempre la consapevolezza di come
eravamo e di cosa volevamo. Il secondo motivo d'interesse (ma, a guardar
bene, si tratta sostanzialmente di un
altro elemento complementare al primo) riguarda la personalità dell'autore, Pier Vincenzo Mengaldo.
Cos'è la critica letteraria? Banalmente parlando, un complesso di
strumenti culturali e tecnico-intellettuali con cui leggere più correttamente, e al tempo stesso più riccamente
un qualsiasi testo che a sua volta possa esser definito "letterario". In Mengaldo questa nozione appare contraddistinta da un'estrema ricchezza (anche la postfazione del libro, del curatore del volume, Donatello Santarone, si sofferma molto su questo aspetto). In lui filologia e linguistica, storia
del pensiero e delle ideologie, critica
letteraria intesa anche nel senso più
stretto, si coniugano e si arricchiscono fra loro in una sorta d'incessante
processo di approssimazione e talvolta di mediazione. Con questi criteri,
del resto, Mengaldo ha attraversato
l'intero Novecento letterario italiano:
e non sarebbero da escludere proprio
in questa chiave i bellissimi scritti su
Primo Levi. Stando così le cose si dovrebbe capire perché i testi sui quali
l'acribia filologico-critica di Mengaldo qui siano quelli della produzione
poetica (fondamentalmente) di Franco Fortini. Fortini rappresenta in sé l'esempio massimo, io credo, di un letterato italiano del nostro recente passato (in fondo, è scomparso nel 1994),
nel quale l'esercizio dello strumento
e del linguaggio poetici, - peraltro
del tutto rigorosamente adottati e praticati, - è stato messo al servizio di un
intento più vasto e più coinvolgente:
quello di farci capire e sentire in che
mondi ci era capitato di vivere. E come avremmo potuto viverli. E se ci sarebbe toccato in sorte di vederli diversi e, se la parola non suona eccessivamente ideologica, migliori.
A me è capitato qualche anno fa (in
fondo, non molti più di cinquanta: in
questo caso il rapporto con il passato,
di cui parlavo in precedenza, diventa
per alcuni versi un rapporto vitale, esistenziale) di rimproverare a Fortini la
sua ragione-pretesa di mettere poesia
e letteratura al servizio di uno scopo
che, nonostante la sua nobiltà, non poteva non essere considerato utilitario,
ossia di tutt'altra natura: meglio separare le due sfere piuttosto che confonderle e coniugarle (naturalmente sulla base di un'esperienza europea, più
che italiana, di grande portata).
Mengaldo, nonostante la sua precisa, personale connotazione politica e
ideologica, entra costantemente nel
merito di tale connessione, individuando da una parte e dell'altra i reciproci arricchimenti. In questo senso,
obiezioni e discussioni (singolarmente importante da questo punto di vista è la sua Lettera a Franco Fortini sulla sua poesia, del 1980) precipitano sul
complesso tessuto fortiniano, senza
rifiutarne, e tuttavia discutendone,
nessuno aspetto: per esempio, la preferenza che Mengaldo esprime nei
confronti della componente brechtiana della poesia fortiniana rispetto a
quella surrealista.
Non sembri strano che io concluda
questo rapido discorso, osservando
che Mengaldo studia con particolare
attenzione la predilezione (apparentemente singolare) che Fortini sempre dimostrò per l'opera di Torquato
Tasso, sia lirico sia epico (saggio del
1999). Com'era potuto accadere che il
poeta novecentesco, nostro profondo
contemporaneo, manifestasse questa inclinazione verso un poeta del
lontano passato, contraddistinto (a
giudicare dalle interpretazioni dominanti) da ideologia cattolica conservatrice e da scelte stilistiche tematiche
di antico stampo?
La risposta di Mengaldo è di un'enorme chiarezza. E io la riporto perciò pressoché per intero. Scrive Mengaldo: «Perché, si chiede il critico (Fortini), predominano e subito predominarono nel gusto dei lettori talune zone (liriche, idilliche, "musicali"...) del
poema?». Risponde Mengaldo (al posto di Fortini): «Ma perché Tasso ha saputo interpretare prontamente la domanda inespressa di tutta una fascia
di suoi contemporanei... Dunque l'artista (ed è impossibile non cogliere
qui l'eco della lezione permanente di
Lukcacs) non dà voce al sociale perché sia piantato come un immobile pilone nel suo mezzo, ma in quanto ne
sa cogliere al volo le tendenze latenti
e i punti di fuga che pure diverranno
futuro, le attese delle minoranze che
potranno diventare maggioranze».
Non è una formula che sembra esprimere il senso dell'intera esperienza
dello stesso Franco Fortini, poeta e polemista, ottimista e pessimista, cerebrale e istintuale, nel suo rapporto
con il nostro tempo?