Se c'è una cosa
che il Covid ci ha
insegnato, imprimendola dolorosamente nei corpi di tanti, è la
nostra vulnerabilità. Di tutto il resto - degli effetti
economici, sociali, politici - si
può discutere. Ma non di questo.
Siamo esposti alla sofferenza e alla morte. Certo, lo sapevamo da
sempre, di dover soffrire e morire. Ma non così. Di potere essere
travolti, all'improvviso, tutti, senza riparo. Quello che nel giro di
qualche mese è cambiato non è la
nostra vulnerabilità, ma la percezione di essa: non siamo anche,
ma essenzialmente, vulnerabili.
Gli esseri umani non sono solo caratterizzati, ma definiti dalla vulnerabilità. E quello che i filosofi
intendono con il termine "ontologia" - qualcosa che attiene all'essere.
Una riflessione del genere è
tutt'altro che nuova. Essa affonda
nelle radici della nostra tradizione - dai tragici greci in poi. Ma è
interpretata con un'intensità crescente che nel Novecento trova
soprattutto due ambiti di espressione: la tradizione ebraica e il
pensiero femminista. Quanto al
primo, alla sua fonte vi è naturalmente la persecuzione e il genocidio. Ma - senza voler istituire nessun paragone - l'esposizione alla
discriminazione e alla violenza è
anche al cuore della condizione
femminile. Ciò spiega perché la riflessione sulla vulnerabilità venga in larga parte dal pensiero femminista - Judith Butler innanzitutto, ma anche, con varie sfumature, Adriana Cavarero, Wanda
Tommasi, Elena Pulcini, Olivia
Guaraldo e altre. Si veda, adesso,
per un panorama d'insieme, Vulnerabilità: etica, politica, diritto (If
Press), a cura di M. S. Bernardini,
B. Casalini, O. Giolo, L. Re.
Ma per penetrare ancora più a
fondo nel tema in questione bisogna risalire all'esperienza di un'altra pensatrice - collocata precisamente nel punto di giuntura tra i
due filoni. Donna ed ebrea, in fuga dalla Francia occupata dai nazisti e morta in esilio: Simone
Weil, cui adesso Rita Fulco dedica un nuovo libro, Soggettività e
potere. Ontologia della vulnerabilità in Simone Weil (Quodlibet). Al
centro della sua esperienza l'esposizione dell'essere umano alle
ferite fisiche e morali. Il rischio
estremo - ben presente, non solo
negli anni in cui Simone scriveva
- è costituito dalla spoliazione integrale che lascia la vita nuda, priva di ogni qualifica propriamente
umana. Ciò accade quando la sopravvivenza, in una condizione
disperata, diventa l'unico obiettivo perseguibile. Allora la vita si
raggomitola su se stessa, perdendo ogni attenzione nei confronti
dell'altro. Del resto è difficile rivolgere vera attenzione a chi soffre - alla carne nuda, inerte, sanguinante. Alla vita sul ciglio di un
baratro, accatastata nei carnai
senza nome nelle periferie del
mondo o anche annidata nei crepacci delle nostre società. L'attenzione sfugge la sventura. La scorge appena, prima di volgere altrove lo sguardo: «Il pensiero prova
ripugnanza a pensare alla sventura - scrive Simone - così come la
carne prova ripugnanza di fronte
alla morte».
Eppure solo da quel punto,
ignorato, rimosso, cancellato, si
delinea l'altro polo che caratterizza l'essere umano, originato proprio della consapevolezza della
vulnerabilità: l'obbligo nei confronti dell'altro sofferente. L'essere umano, proprio perché essenzialmente vulnerabile, è sempre
in obbligo verso chi condivide la
stessa sorte. È il punto decisivo
che fa di Simone Weil la maggiore pensatrice contemporanea: il
primato dell'obbligo sul diritto.
Solo perché gli uomini sono in obbligo verso i propri simili, questi
hanno dei diritti. Non viceversa:
«Un uomo che fosse solo nell'universo, non avrebbe dei diritti, ma
avrebbe degli obblighi», qualcuno verso se stesso. L'obbligo nei
confronti dell'essere umano precede ogni relazione. Non è relativo, ma assoluto.
Bastano queste parole di Simone Weil è rivelare la modestia intellettuale ed etica delle polemiche politiche sui migranti. Non si
comprende che essi vanno salvati non perché abbiano dei diritti -
difficili da definirsi - ma perché
noi abbiamo un obbligo assoluto
verso di essi. Poi la politica può fare scelte diverse, in considerazione del contesto, delle situazioni,
dei rapporti di forza. Ma senza
confondere i piani.
L'obbligo non si basa su situazioni contingenti, sulla giurisprudenza, sui costumi. Esso non risponde al diritto, ma alla giustizia. Certo il diritto può, e anzi deve, tendere ad approssimarsi alla
giustizia, ma sapendo di non essere mai giusto. Diritto e giustizia si
rivolgono allo stesso oggetto - la
società umana. Ma cambia il punto di vista da cui la guardano: il diritto dalla prospettiva dell'immunità, la giustizia da quello della
comunità. L'incomparabile grandezza di Simone Weil sta nel rivolgersi, senza mai sovrapporli, al
reale e al giusto: «Su questa terra
non c'è altra forza che la forza».
L'unica forza, non di questa terra,
che la contrasta è la giustizia.