Pisa,1903. All'osteria "Dal Garzella", un bell'uomo dal volto
gioviale, il moustache folto e
nerissimo, una camicia morbida sul petto e il fiocco nero volante e slacciato, tiene banco a
un tavolo di amici. Nessuno potrebbe sospettare, tale è il baccano che fa, che è ordinario di
Grammatica latina e greca
all'università pisana, che è un
coltissimo poeta. Di lui sono
apparsi i Poemetti, I Canti di
Castelvecchio e l'edizione arricchita del suo esordio dal nome
inequivocabile, Myricae: sì, è
Giovanni Pascoli. Tuttavia,
quest'uomo mobilissimo non è
il Pascoli della vulgata, del solito ritornello che inizia con la
morte del padre ucciso mentre
era sul cavallo (da cui, la Cavallina stoma che portavi colui
che non ritorna), passando per
il "nido" come rifugio e fuga
dalla vita, il "Giovannino di
nuovo vestito/come le bocche
dei biancospini", l'adulto represso. No, è il vero Pascoli.
A rivelarci chi era l'uomo e il
poeta è la studiosa Francesca
Sensini (associato di Italianistica a Nizza) nel denso e gustoso saggio dall'efficace titolo Pascoli maledetto, che prova a
sprigionare il poeta dalla lettura scolastica, "una rappresentazione di sfortune, traumi,
turbe, lacrime che obbligano
l'artista e la sua opera a una veglia mortuaria" al fine di "demufficare il grande artista da una narrazione datata e falsata": L'essere maudit/maledetto è una categoria dello spirito e del
corpo. E sembra essere il corpo
- la sua miseria, la sua transitività - a muovere ogni volta il
nostro. Scopriamo, così, che a
trent'anni Pascoli conduce un'esistenza bohèmienne a Bologna: fa tardi con gli amici goliardi e giovani artisti in serate
alcooliche, si consacra alla poesia grazie al consumo di laudano (un rimedio a base di oppio,
alcool e spezie). È un anarchico, veemente segretario bolognese dell'Internazionale dei
lavoratori. Ed era noto al Prefetto di Bologna: dalla metà degli anni 1870, da una nota del
Ministero dell'Interno, si apprende che di lui si parla quale
"il noto Pascoli, organizzatore
capo" delle azioni degli anarchici in città. Un sovversivo che
finisce in cella per tre mesi.
Di tale stagione restano
componimenti poetici, come
un'ode a Passante (l'attentatore
di re Umberto I, andata quasi
interamente perduta) o La
morte del ricco, in cui l'autore
mette in scena tutti gli spettri
delle vittime del capitalismo,
incarnato dal ricco sul letto di
morte: un contadino sfruttato,
un minatore già sepolto in vita,
un affamato. Come individua
Sensini, però, questi testi non
vengono letti nelle scuole, perché si preferisce dare del Pascoli una versione rassicurante e una lettura più nazional-popolare. Ma l'aspetto più obliato della
sua produzione è l'eros, che non
è per nulla turbato o rivolto alle
sorelle, ma vivacissimo e spontaneo, aureolato a "irrinunciabile ragione di vita" annota la
studiosa, che dalle lettere e i documenti da poco esperiti, oltre
a raccontare di innamoramenti
extra-coniugali (come quando
a Messina, professore di liceo,
s'innamora di una studentessa,
Maria), registra la felice frequentazione delle case di tolleranza. Nell'epistolario col fratello Raffaele, secretato per volontà della sorella Maria fino al
2016, leggiamo: "Puoi immaginare quanti pasticci abbia fatto
per non fare accorti in casali una somma così grande che se ne
va - nel bordello e nell'osteria".
Il sesso è un'esperienza esaltante per Giovanni e lo troviamo evocato nell'immagine del fiore.
Rileggiamo subito Gelsomino
notturno: cosa saranno mai i
"fiori notturni" che "s'aprono"
dell'attacco? Per sciogliere l'allegoria, di nuovo il francese
(Pascoli era grande lettore di
Verlaine e Baudelaire): i gelsomini notturni sono anche detti
"belle di notte", e belle de nuit è
un altro modo di chiamare le
entraîneuse dei bordelli. Ah,
che sporcaccione Giovanni.
Ma anche un fervido amante
delle donne: la sua poesia abbonda di femmine fascinose,
spesso redivive come nella poesia di Poe. In questa continua
tensione tra oscillazione ed esaltazione dell'artista attraverso la poesia come idéal di Baudelaire e lo spleen più nero, Pascoli è poeta assoluto, cioè maledetto, dalla definizione di
Verlaine: "Assoluto quanto a
immaginazione, assoluti
nell'espressione", ma maledetti
perché la trasgressione dalla
mediocre realtà comporta dolore e perdita di sé. A ben pensarci, però, già Cesare Garboli
in Trenta poesie famigliari di
Giovanni Pascoli da poco ripubblicato, aveva iniziato a
suggerire che il poeta fosse
tutt'altro che mieloso, ma più
inquietante. Le poesie da lui selezionate sono dei "versicoli di
casa", ma in realtà "dettagli che
aprono sull'inferno pascoliano". Alro che eterno fanciullino, dalla famiglia Giovanni
fuggiva, tanto che all'amico Severino Ferrari scrive: "Io non
posso più durarla in una vita
così trambosciata con quello
spettacolo de' miei fratelli affamati e piangenti". E lo ricorda,
pure Sensini che nel dare a Pascoli la stessa caratura internazionale di Verlaine o Baudelaire, rammemora quanta gioia di
vivere gli corresse nelle vene,
appena uscito di casa al primo
incarico di insegnante: "Tutto il
mondo è paese ed io ho risoluto
di trovar bella la vita e piacevole
il mio destino".