Recensioni / “Absolutely nothing” di Giorgio Vasta e Ramak Fazel: se il linguaggio sfida il deserto

«ABSOLUTELY NOTHING – NEXT 22 MILES» è la dicitura meticolosa e spaesante di un cartello giallo piantato da qualche parte in California, a segnalare che di lì in avanti – per 22 precisissime miglia – non ci sarà niente. Solo un deserto amorfo, senza contorni riconoscibili con cui rinfrancarsi. Immaginando di dover dare un volto geofisico alla Waste Land di T. S. Eliot, potremmo rivolgerci all’elenco di ghost town e luoghi abbandonati che Giorgio Vasta e Ramak Fazel hanno raccontato, muniti l’uno di penna e l’altro di macchina fotografica analogica, in Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani. Il titolo, inglobando il paradosso, raccoglie la sfida che uno spazio ineffabile – quello desertico – pone alla lingua. Dalla California alla Louisiana, passando per il Nevada, l’Arizona, il New Mexico e il Texas, lo scrittore palermitano e il fotografo americano di origini iraniane, in compagnia della fotografa e responsabile del progetto editoriale Giovanna Silva (i suoi scatti, in bianco e nero, si trovano all’interno del testo, mentre quelli di Fazel sono raccolti alla fine), hanno attraversato le sconfinate estensioni americane con l’obiettivo di inseguire gli spazi perduti, spopolati o disabitati, per scoprire cosa accade a un luogo quando la presenza umana si attenua divenendo minoritaria o esaurendosi del tutto.
Può capitare, come esercizio infantile o come inciampo della percezione, di chiedersi se ciò che vediamo continui a esistere ostinatamente anche quando distogliamo lo sguardo. La domanda sembra retorica: in fondo non siamo noi a dare consistenza alle cose. È però il punto di vista umano che riconosce, identifica e definisce, laddove, nella più totale assenza di coscienza cosmica, ogni luogo potrebbe essere indiscriminatamente uguale all’altro.
Prima ancora che con l’avvento della pandemia fossimo tutti costretti a fare i conti con strade e città vuote, Giorgio Vasta si è posto il problema della definizione linguistica degli spazi segnati dall’abbandono, che nel caso dei “deserti urbani” americani diviene una forza progressiva e inarrestabile. In questo reportage, sconfinato in corso d’opera in romanzo dai tratti finzionali, a fianco dell’io narrante ci sono due comprimari molto diversi tra loro: lo scapigliato Ramak – camicia hawaiana, bermuda e mocassini – incarna la giusta quota di improvvisazione all’interno dell’itinerario, mentre Silva rappresenta un polo centripeto di razionalità, sempre pronta a dispensare virgilianamente dati e notizie sul luogo visitato e a riportare la bussola del viaggio verso la meta prestabilita. Tappa dopo tappa, tuttavia, diviene evidente che la linearità – geografica e narrativa – è poco più che un miraggio; al suo posto, imperioso e irriducibile, un senso dominante di scomposizione e disordine primigenio.
I deserti di Absolutely Nothing sono tali perché lasciati a se stessi, crepati dall’assenza dell’uomo e restituiti quasi interamente allo strapotere degli agenti atmosferici. Le presenze umane residuali sono ombre lunghe di un già stato che orbita pericolosamente intorno al buco nero dell’annientamento. Come baluardi diroccati di fronte all’inesorabilità del tempo, impegnato a disfare ciò che l’uomo ogni volta si accanisce a ricostruire, questi luoghi assumono i connotati di gironi danteschi; si tratta però di un limbo dove l’orrore è lento e la corrosione si consuma in tempi lunghissimi, dove nessuna eroica fiamma arde tragicamente, mentre s’incontrano case già arse, annerite da incendi di cui si è persa la memoria.
La conformazione dello spazio obbliga la narrazione a disallinearsi, confondendo le date del viaggio e infrangendo il tradizionale sviluppo rettilineo del diario di bordo: la possibilità di un incedere diacronico che rimetta in ordine i nomi dei luoghi e delle persone non è data, resta solo un vorticoso e fluttuante in medias res. Space absorbs everything, sentenzierà Ramak. Il libro si apre (quasi programmaticamente) nel segno della sparizione, con un furto onirico: il narratore sogna di venire derubato, ma non può sporgere denuncia perché non ricorda che cosa gli sia stato sottratto. «Lo sfacelo», preciserà Silva, «è un modo: non il modo»; eppure lo sguardo di Vasta è disciplinato da una modalità di conoscenza delle cose che procede non dalla loro immanenza, bensì dalla loro mancanza. «A posteriori», scrive l’autore, «mi sembra che non trovare quello che si cerca perché non si sa di doverlo cercare proprio lì, non vedere quello che c’è, scoprire solo dopo come stanno le cose – tutto ciò, malinconicamente, mi riguarda». Il vuoto dello spazio esterno si trova così a riflettere una condizione della mente, un absolutely nobody che si configura come un buco nell’architettura del pensiero, una lacuna che è contemporaneamente oggetto di indagine e di rifiuto.
Come nelle aride distese del Mojave salta il nesso logico tra punto di partenza e punto di arrivo, così nella gran parte delle città americane manca uno dei concetti più familiari e confortanti per gli abitanti del vecchio continente, quello di centro: nell’assenza di un nucleo da cui tutto si origina concentricamente, «il disorientamento è prima di tutto culturale». Le “colonie umane”, da Los Angeles a Bombay Beach, reagiscono assumendo esse stesse l’immagine del deserto; l’azione umana non si illude di dominarlo, ma se ne fa propaggine secondo una logica di «continua reversibilità». Qui ogni conquista è provvisoria; il deserto, «irredimibile», tornerà a reclamarla. Si evidenziano in tal modo le falle dell’attitudine proprietaria esercitata dall’uomo sullo spazio (la nostra città, le nostre cose): un inganno sentimentale che ci porta a tentare di chiudere in una sintassi possessiva l’eterno transitorio. Ancora una volta la differenza di sensibilità si gioca sul piano del linguaggio: in Europa le rovine sono le orme dense di significato di un passato che si vuole mantenere acceso, attraverso un processo di storicizzazione e musealizzazione; le rovine americane si comportano invece come macerie, alle quali gli abitanti riservano un trattamento quotidiano, quasi banale: «negli Stati Uniti lo spazio distrutto è […] comune, laico, normale».
Le biografie urbane raccontate da Giorgio Vasta seguono uno schema ricorrente che inizia con un’ascesa, esplode in un momento apicale, si frattura con la produzione di un trauma e infine sfuma nella decadenza. Ma se è possibile fantasticare mitopoieticamente sull’origine di un luogo (basta pensare ai miti di fondazione), individuarne la fine è impossibile, poiché si tratta di un processo «potenzialmente infinito». Llano del Rio, Shafter, Daggett, Calico, Lake Dolores e Trotter Park sono solo alcune delle località su cui il tempo ha agito crudelmente, umiliando e vanificando l’umano bisogno di nominazione, così radicale da caratterizzare già le prime fasi dell’infanzia. I tre protagonisti si aggirano in queste increspature spazio-temporali, veri e propri quadri di «persistenza della memoria» che costituiscono un’anomalia rispetto al ticchettio regolare dell’orologio umano.
Un esempio eclatante è il Salton Sea, lago originato dall’inondazione di una pianura da parte del fiume Colorado, che ai tempi di massimo fulgore rappresentava un’attrazione turistica in grado di rivaleggiare con Palm Springs. Poi è arrivato l’inquinamento, lo spopolamento degli stabilimenti, la contrazione delle acque e la dispersione di acido solfidrico nell’aria. Tra l’odore di putrefazione e la progressiva fossilizzazione delle carcasse dei pesci, i passi impressi sulla sabbia screpolata segnano l’ingresso in una dimensione non più umana, dilatata e inaccessibile, quella della consunzione incontrastabile, dei tempi iperbolici della geologia.
Lo smisurato spazio nordamericano non è però solo quello delle aporie spaziali, ma anche dell’infinita rete di riferimenti culturali che ne plasmano ogni angolo: fonti letterarie, cinematografiche e musicali rendono anche gli ambienti più anonimi massimamente «memorabili», dal momento che «ovunque è successo qualcosa, in ogni luogo minimo e negletto qualcuno è nato oppure è morto o ci è passato o c’è stato girato un film o un video, tutto lo spazio è connotato e significativo». Dalla Venice Beach di Jim Morrison e Ray Manzarek alla lynchiana Mulholland Drive, l’America è puntellata di interruttori narrativi pronti per essere attivati. Perfino un chiosco sperduto nel deserto, il Desert Market, può vantare di essere saldamente collegato a qualcosa, che nel caso specifico è il video di My Favourite Game dei Cardigans, girato nel tratto della vecchia Route 66 che passa da quelle parti. Nel narrare se stessa e i suoi miti (la conquista del west, il denaro, il progresso), in uno spazio grigio che attenua i confini tra le malferme categorie di verità e finzione, l’America riguadagna consistenza, opponendo all’informe dilagante un secco segno di individuazione. Così pure gli aedi del deserto incontrati da Vasta, Ramak e Silva – proprietari di bar, guide in musei insoliti (come l’Ufo Museum di Roswell o il Neon Museum, cimitero di scritte e insegne provenienti da tutto il Nevada) – si delineano come sagome (s)radicate, ansiose di comprovare verbalmente la loro stessa esistenza, attraverso il racconto di sé e del loro spazio. Lontani cugini dell’Edward Bloom di Big Fish, questi cantastorie non sono bugiardi, specifica Ramak, ma «larger-than-life»: le loro storie sono forse inverosimili, ma non per questo false.
A venire contaminato da questo duplice impulso – da un lato l’adesione capillare alle cose, dall’altro lo sconfinamento nell’immaginazione – è lo stesso narratore: dall’incubo dell’incontro fatale con la famiglia antropofaga, fomentato da una nutrita cinematografia dell’orrore, al dialogo scambiato con un personaggio animato d’eccezione: Spike, il fratello maggiore di Snoopy, che ha scelto di vivere nel deserto della California («Non voglio che più nessuno soffra a causa mia») riempiendone il vuoto verbale con i suoi balloon. Se Absolutely nothing implica una «tregua» della lingua di fronte al deserto, c’è chi, come Vasta, decide di «andare a vedere cosa succede negli spazi da cui le parole sono andate via». Sposato ai cactus e alle dune sabbiose, Spike ha imparato ad amare e rispettare quello spazio interminabile, «slegato» da ogni cosa: lì i desideri più profondi e inconsapevoli possono essere esauditi, e ogni parola depositata sulla rena va ponderata con estrema cura. Diventa plausibile pensare che sulla via di nessuno, forse, qualcuno abbia saputo trovarsi.

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