1.
«Non sapevo che Benati fosse anche
un esperto di letteratura: di pittura con
lui ne ho parlato spesso, di letteratura
poco». Così un redattore della casa editrice Feltrinelli a Paolo Nori, che rettifica:
«Lei parla di Davide, io parlo di Daniele,
suo fratello». L'aneddoto, riportato dallo
stesso Nori, mi sembra il modo migliore
per iniziare a parlare di Daniele Benati.
Perché Benati (nato a Reggio Emilia, località Masone, nel 1953) è sempre "qualcun altro": Un altro che non ero io, del resto, è il titolo di una sua raccolta di racconti, uscita da Aliberti nel 2007; e molto
ci sarebbe da dire sulla frequenza di
"doppi" e di sosia nelle sue opere; per
non parlare, ovviamente, di Learco Pignagnoli, vero e proprio alter ego letterario, protagonista di libri (Opere complete
di Learco Pignagnoli, Aliberti 2006) e di
spettacolari letture pubbliche.
Benati, poi, è un autore plurimo: da
una parte traduttore e saggista, dall'altra
scrittore; ma ciò che più colpisce, in questa duplicità, è la singolare divaricazione
fra le due figure, l'una ordinata e sistematica, l'altra imprevedibile e pirotecnica. Insomma, l'apollineo e il dionisiaco.
«Pensavo che fosse un professorone, invece sembra mio cugino che fa il meccanico», pare abbia detto un'amica del solito Nori. E in effetti Benati ha qualcosa
del tecnico che conosce bene il proprio
mestiere; di uno, per dirla ancora con
Nori, «che è capace di far delle cose»:
qualcuno, per esempio, che dopo aver
pazientemente smontato un motore un
pezzo alla volta, di ciascuno è in grado
di spiegarti il funzionamento. Lo stesso
che accade nelle sue pagine saggistiche,
apparse di regola sotto forma di prefazioni, note, articoli dedicati suoi autori di riferimento: da Joyce a Beckett, da
Flann O'Brien a Thomas Bernhard, da
Raffaello Baldini a Luigi Malerba. Fra le
mani di Benati, la letteratura diventa improvvisamente qualcosa di concreto e
tangibile. E in un momento in cui alla
critica (non solo) letteraria è richiesto soprattutto di sfornare definizioni a effetto
o eleganti stroncature, lui sceglie l'argomentazione: puntuale, ferma, mai pedante.
Non c'è però solo la letteratura nell'orizzonte del Nostro. Per Benati la
scrittura è innanzitutto voce e musica, da
ascoltare ancor prima che da leggere.
Profondo conoscitore di Bob Dylan, Benati (che tra l'altro è stato occasionaimente critico musicale), ama ricordare
che Keith Jarrett spesso iniziava a suonare il piano senza sapere esattamente
dove sarebbe andato a parare: «Il suo
non era il classico modo jazzistico di improvvisare, ma una ricerca di cose da
suonare», ha ricordato, «nelle registrazioni di quei concerti è possibile distinguere i momenti in cui egli trova l'ispirazione su cui far leva e quelli in cui effettivamente brancola alla ricerca di qualche idea».
Scrivere significa allora assecondare
un impulso che può nascere da una nota,
una voce, una frase «alla quale immediatamente e istintivamente si tende l'orecchio, perché la si sente dotata di una personalità e della capacità di metterne in
moto altre». Significa anche andare spesso alla cieca, attraversando fasi di smarrimento e frustrazione. «In pratica»,
spiega Benati, questo non-metodo di lavoro «si traduce nell'accettare di partire
da una posizione di "non sapere", posizione che poi, trasformata in condizione
esistenziale, è la stessa da cui muovono i
protagonisti delle mie storie».
2.
I primi capitoli di Silenzio in Emilia
compaiono fra il 1995 e il 1996 sulla rivista "Il Semplice", fervido laboratorio
d'idee della narrativa italiana anni Novanta, del quale Benati è stato uno degli
animatori. Undici storie, con la prima
(Silenzio in Emilia) e l'ultima (Tema finale)
a fare da cornice, accomunate dal tema
della prossimità fra vivi e morti. Identica
è anche la tela di fondo: una Pianura Padana che a tratti sembra Midwest americano. La copertina della prima edizione
(Feltrinelli, 1997) parla chiaro: un dipinto
a olio, realizzato dallo stesso Benati a
partire da una fotografia dello scrittore
Robert Walser, che raffigura un viandante (uno hobo?) in piedi sul ciglio di uno
stradone (una Highway?) costeggiato da
una fila di pali della luce. Questo è l'incipit del primo capitolo:
"Ci sono molte credenze legate ai morti,
che però nei tempi moderni non valgono più.
La gente non ci pensa o non ci crede, ecco il
perché. Mi dice un tale dalle mie parti che i
morti tornano spesso dove hanno vissuto,
delle volte passandoci in treno di notte, oppure delle altre compiendo un'azione tipica
della loro vita. Come quel muratore di Marmirolo che un giorno è tornato al suo paese
dopo tanti anni che era morto, ha costruito
una casa, poi è tornato via."
Benati accenna a «credenze», al sentito dire, alle voci colte qua e là. E un'escatologia spicciola, dettata dal senso comune: «Signore, se ci siete, fate che la mia
anima, se ce l'ho, vada in paradiso, se
c'è», recita la bizzarra preghiera del «fratello di mio nonno» che l'autore pone in
esergo al volume. E un aldilà, questo,
che somiglia parecchio all'aldiqua — talmente tanto che può capitare di smarrirsi fra l'uno e l'altro, come capita a quasi
tutti i personaggi di Silenzio in Emilia.
Come il novantunenne campione di bocce Franco Badodi, che un mattino d'inverno viene a sapere d'essere morto. Incredulo, decide di recarsi come tutti i
giorni alla bocciofila, ma solo per fare
un'orribile scoperta: «Quella non era la
bocciofila di San Martino, era l'inferno in
carne e ossa [...] ero morto e senza scampo e non c'era più niente da fare». Al primo tentativo dì fuga segue inevitabile la
rassegnazione: «Ero finito nel posto dove
mi avrebbero trovato morto. E infatti
pian piano mi è venuta voglia di sdraiarmi».
Quella di Benati non è — come magari in molti, a suo tempo, vollero credere
— una sorta di Spoon River in salsa emiliana. Se nell'antologia di Edgar Lee Masters ciascun epitaffio ripercorre una
vita con la piena consapevolezza del
"dopo", in Silenzio in Emilia i protagonisti si dibattono nell'incertezza; perché,
come osserva uno dei personaggi del
racconto Un meccanico in Germania,
«quando si muore è come arrivare in
una terra straniera». Ma può anche accadere il contrario. Nell'ultimo capitolo,
Tema finale, il piccolo Socetti, vessato
dalla professoressa di lettere perché
troppo fantasioso e distratto, si trova ad
un tratto a oltrepassare la linea immaginaria che separa í due mondi. In questa
condizione intermedia, simile alla veglia, Socetti assiste a una strana partita
di calcio, nella quale i giocatori sono i
personaggi incontrati nei capitoli precedenti. Lo scolaro, che l'indomani deve
consegnare alla professoressa un tema
d'argomento sportivo, cerca di mettere
per iscritto tutto ciò che vede. Poi, proprio mentre fa per tornare a casa, incontra la Portinari, una sua compagna di
classe venuta a cercarlo; e lui, novello
Dante (ché Portinari, come ha osservato
Alessandro Carrera, era appunto il cognome della Beatrice dantesca), l'accompagna leggendo il proprio tema ad alta
voce: un tema che, con un ribaltamento
"meta", potrebbe anche essere il libro
che abbiamo fra le mani.
3.
L'idea iniziale di Cani dell'inferno,
uscito nel 2004, a sette anni di distanza
da Silenzio in Emilia, nasce invece da una
gelida passeggiata mattutina a Boston, in
compagnia di Gianni Celati, durante la
quale i due s'imbattono in una fila di barboni davanti a un McDonald's che stava
per aprire. È questa l'immagine da cui
parte il romanzo, nel quale Benati fa confluire le proprie esperienze di lecturer
presso l'Università del Massachussetts,
Harvard e MIT. Il risultato è un particolarissimo "romanzo americano", col quale
l'autore dà voce al senso di opprimente
solitudine che spesso Io coglieva durante
gli anni (1995-2001) trascorsi Oltreoceano: la stessa ambientazione principale,
l'elefantiaco comprensorio situato al 3847
dell'immaginaria Mystic Avenue, non è
altro che il patchwork d'una serie di luoghi nei quali lo scrittore aveva vissuto.
All'interno di questo universo instabile,
si trascinano le esistenze di undici personaggi, tutti contrassegnati - tranne l'ultimo, anonimo - da un cognome che inizia
con la lettera P. Nomi ricavati dal dialetto
di Reggio Emilia e dintorni, fuori posto
in un contesto anglofono: Piciorla, Ponci,
Pavera, Perlasca, Picaglia, Polis, Paio....
Ogni capitolo è strutturato come una sorta di monologo (alla Beckett?), in cui il
personaggio racconta la propria quotidianità con l'estro divagante del folle: «È
bello raccontare, diciamolo. Delle volte è
anche più bello che vivere».
Il romanzo non spiega perché i vari
personaggi siano finiti in Mystic Avenue,
né definisce la loro professione o collocazione sociale. Addirittura, alcuni dettagli
ricorrenti (l'inziale del cognome, la presenza di una voce d'ignota provenienza
che chiama «Ehi, Joe!», le apparizioni improvvise dei cani) farebbero pensare che
si tratti sempre della stessa persona: «C'è
l'anima universale, no?», dice un personaggio, «A questo punto l'identità non
conta più». Comune a tutti è comunque
l'attesa: se non proprio di un segno divino, quanto meno di qualcosa che spezzi
la monotonia. Ma anche quando quest'attesa sembra lì lì per rompersi, generalmente grazie all'intervento di quella
Musa invocata da ognuno di loro, la stanchezza, la noia e - diciamolo pure - l'inettitudine hanno quasi sempre la meglio.
Tra gli innumerevoli riferimenti letterari presenti in Cani dell'inferno, un posto
di rilievo spetta alla Commedia di Dante.
«Dante è il più forte dei poeti, che ha
creato immagini indimenticabili», si legge nel primo capitolo. E in effetti, benché
i cani del titolo vengano dai versi del
"maledetto" Robert Johnson citato in
esergo con la sua Hellhound on My Trail
(1937), tutto autorizza a pensare che siano parenti stretti delle cagne che nel XIII
canto dell'Inferno straziano suicidi e scialacquatori di beni; così come, ancora nel
primo capitolo, il Charles, uno dei due
fiumi di Boston, assume l'aspetto del Cocito ghiacciato.
La sintonia con «il più forte dei poeti»:
è però più profonda. Al pari di Dante,
che attraverso la pratica allegorica trasfigurava il proprio presente, così Benati
proietta sulla pagina la propria esperienza nel Nuovo Mondo, nelle forme di una
catabasi laica e moderna. «È come se l'aldilà fosse stato scosso da un terremoto
che ha mescolato le carte in tavola», ha
spiegato, «e uno non capisce più dove si
trova: sa di essere in Paradiso ma gli
sembra di stare all'Inferno, crede di scontare una pena in Purgatorio ma in fondo
ha anche la sensazione di esserne già
uscito, s'incupisce perché non avrebbe
mai pensato di finire all'Inferno e non
s'accorge che invece quell'Inferno è il Paradiso». Così, mentre il viaggio di Dante
era un percorso di penitenza e purificazione verso la salvezza eterna, quello dei
personaggi di Senati ha più l'aria di un
girare a vuoto, circolare e non verticale.
Proprio come in uno dei romanzi preferiti dello scrittore reggiano, Il terzo poliziotto dell'amato Flann O'Brien, parafrasato
nel finale del libro.