Recensioni / Non c'è natura trascendente: la creano i giuristi o la chiesa

II libro curato da Michele Spanò unisce saggi di due autori legati da una lunga amicizia intellettuale interrotta solo dalla scomparsa prematura di Yan Thomas nel 2008. I due lavori, tuttavia, sono nati in momenti differenti e affrontano la natura sotto due prospettive diverse che è bene tenere distinte. Yan Thomas era un esperto di diritto romano, anomalo e geniale, in grado di sviscerare come pochi altri le logiche dei giuristi antichi. Era affascinato dalla capacità di astrazione e di manipolazione dei dati reali mostrata dai giuristi del II-III secolo d.C. e forse, per lui, tutto il diritto era una consapevole e necessaria opera di riconfigurazionc della realtà al servizio della vira pratica della società romana. La creazione della natura rientrava in questo quadro. Contestando una vulgata diffusa presso molti storici del diritto, Thomas sostiene che i giuristi non accolsero nessuna visione trascendente della natura, come ente che precede e fonda il diritto (di derivazione ciceroniana) ma, al contrario, assegnarono alla natura una dimensione completamente strumentale: la natura non precedeva il diritto, ma era istituita dal diritto, e permetteva di immaginate e mettere in atto alcuni fondamentali istituti giuridici privatistici. Per spiegare questa funzione apparentemente controintuitiva, Thomas parte dalla casistica, le discussioni nate intorno a singoli casi di applicazione di una norma, una pratica intellettuale in cui i giuristi romani eccellevano per immaginazione e capacità di ragionamento. Sono tre, secondo Yan Thomas, gli ambiti in cui la natura gioca un ruolo centrale. In primo luogo, le forme del possesso, qualificate a partire da un immaginario stato di natura in cui tutto era comune a tinti. Il carattere artificiale di questa nozione di natura è palese - non vi fu mai una fase di comunità dei beni - ma la grande illusione di una proprietà comune e indivisa serviva per articolare i diversi modi di appropriazione attuati dagli uomini: a cominciare dalla divisione fondamentale fra cose private (nate da un atto originario di "presa in proprio" di un animale selvatico) e cose comuni e cose pubbliche (indisponibili ai privati). Il secondo ambito in cui la natura giocò per Thomas un ruolo fondamentale, fu quello della schiavitù: la liberazione dello schiavo (ntanumissio) si configurava negli scritti dei giuristi romani come una restituzione di una "libertà primigenia", assicurata a tutti gli uomini nel mitico stato di natura. In entrambi i casi - appropriazione e liberazione - la natura legittimava il diritto come restaurazione di un ordine antico e originario. Il terzo ambito, l'adozione di un figlio, apriva invece usi diversi della natura: qui non si trattava di restaurare una situazione precedente, ma di imitare un rapporto naturale, la filiazione, mediante un istituto che, per finzione (un concepimento mai esistito), ne riprendeva le forme e i modi. Risulta abbastanza chiaro da questi casi che la natura, nel mondo romano, era un oggetto costruito dal diritto, uno sfondo, una quinta immaginaria che inquadrava le ardite operazioni concettuali dei giuristi: come conclude Thomas, "per i giuristi non c'è altra natura che quella da essi stessi creata".
Il saggio di Chiffoleau, medievista francese di chiara fama, esperto di procedure e da tempo impegnato nello studio della maiestas, affronta invece un'altra dimensione della natura, questa volta cristianizzata. Non tanto della natura come "ambiente" o come libro delle cose create da Dio, ma la natura come ordine stabilito da Dio che regolava i rapporti fra uomini, e fra uomini e cose. Postulare la natura come ordine, espressione diretta della volontà divina, permise ai giuristi medievali, laici ed ecclesiastici, di qualificare come "contro natura" i comportamenti che si opponevano a questo ordine, colpendo direttamente la maiestas di Dio. I crimini contro natura divennero presto crimini contro la maestà divina, e quindi contro l'ordine stabilito da Dio e difeso dalle autorità, preposte da Dio stesso, a guida delle società umane. Soprattutto l'eresia, come opposizione alla fede, fu perseguita come reato contro natura, spesso associata all'accusa di sodomia come suggello-fisico di una perversione più ampia dell'ordine del mondo. Si trattò di un passaggio epocale: minacciare o attaccare la natura (vale a dire l'ordine delle cose stabilito dalla chiesa) divenne un atto di opposizione politica, un attacco alle basi dell'ordine sociale che richiedeva una reazione spietata da parte delle autorità. Da qui la messa in opera di procedure eccezionali basate sull'inchiesta ex officio (procedura inquisitoria) e sulla necessità della tortura per far emergere la verità. Bisognava far confessare tutto, anche l'indicibile e portare alla luce, attraverso il dolore dei tormenti, il male oscuro del crimine nascosto nel corpo dell'imputato. Per le autorità del basso medioevo, dietro la sovversione della natura c'è sempre "l'inquietante messa in causa di un potere sovrano".
I due saggi sono dunque una severa messa in guardia dalle letture abusive della storia come esempio di continuità, o peggio, di eternità della natura. Ma come usarli oggi? Come leggerli? Qui sorgono difficoltà e incomprensioni che hanno segnato anche l'accoglienza, per altro assai buona, riservata a questo libro. Alcuni recensori vi hanno intravisto un nuovo modo di fare ecologia (in tempi di covtu...), un nuovo patto con la natura" e altre amenità eco-friendly adatte al momento attuale. Nulla di più lontano dal contenuto e dalle intenzioni degli autori. Anzi.
Nei primi anni Novanta sì era aperto in Francia (e non solo) un acceso dibattito stille conseguenze, a volte nefaste, della neo,o deep ecology: in particolare la richiesta, ancora oggi sostenuta da molti, di dare personalità giuridica a cose, alberi, fiumi o montagne per assicurarne una maggiore protezione. Chiaramente non sono i fiumi o gli alberi a creare problemi, ma la pretesa di estendere la qualifica di soggetto di diritto agli elementi di una entità extraumana, identificata, appunto, nella Natura con la N maiuscola. Yan Thomas partecipò al dibattito nelle vesti di giurista "attuale" - con un articolo, come al solito anticipatore, dal titolo Le sujet de droit, la personne, la nature ("Le Débat", 1998) - attaccando frontalmente le derive giuridiche di questa impropria assegnazione di diritti soggettivi, che finiva per dare le fattezze di persona a un'entità astratta. Thomas invitava a diffidare di queste finzioni, a non iscrivere nella natura gli esiti di scelte umane e arbitrarie: "I valori che noi dichiariamo di proteggere non esistono che per l'atto stesso con il quale li dichiariamo essere dei valori".
Sono parole ampiamente condivise da Michele Spanò nella densa Postfazione al volume che, prescindendo in parte dai due testi tradotti, avanza un terzo punto di vista sulla natura: la critica alla giuridicizzazione della natura. Spanò riprende, e rimonta in maniera originale, un ampio arco di stadi che da tempo contesta l'idea di diritto soggettivo (esistono solo diritti in capo a dei soggetti, naturalmente uomini), vale a dire che ogni diritto debba avere per forza un soggetto e uno solo. Far diventare "soggetti" delle "cose" non aiuta la causa ecologica; anzi, conferma le gerarchie esistenti, a partire da questa idolatria verso il "soggetto unico", l'individuo come unica entità giuridicamente riconosciuta intestataria di diritti. Spanò propone allora un nuovo terreno di lotta: partire dagli"interessi" e non dai soggetti ed esercitare azioni di tutela di "collettivi plurimi". Non la natura astratta e neanche gli alberi-persone (possono benissimo rimanere cose) sono i protagonisti concreti e reali di questa battaglia sociale, ma i contesti "misti" dove uomini, fiumi, edifici e risorse naturali costituiscono degli insiemi collettivi irriducibili al soggetto-individuo.