Anche rivolgere la parola è toccare. Nell'ottobre del 1969, qualche mese appena prima di gettarsi nella Senna, durante la Pasqua (paradossale memoria di liberazione), il poeta Paul Celan andò a Gerusalemme. Diciassette giorni, e fu il suo ultimo viaggio. Tornato a Parigi, si domanda che forma avrà «ciò che io adesso annoto, dopo Gerusalemme?», perché sin dall'inizio aveva saputo che quell'itinerario sarebbe stato una cesura, una svolta nella vita. O dalla vita. Il poeta nato a Czernowitz, cittadino di Parigi e della lingua tedesca, non sale a Gerusalemme per nostalgia, ansia di ritorno, tormento messianico. La raggiunge spinto da quella materia greve, inamovibile, che è la sua pietra così simile all'aria che la circonda, limpida e adamantina.
Il viaggio è un itinerario per il paese che ha per centro la città, fulcro del mondo sin dall'inizio, secondo la tradizione ebraica. Una donna accompagna il poeta: una compagna di studi ancora dai tempi di Czernowitz. Anche per lei questo viaggio sarà un incontro fatale. Di' che Gerusalemme è. Su Paul Celan: ottobre 1969 - aprile 1970 di Ilana Shmueli (a cura di Jutta Leskien e Michele Ranchetti, Edizioni Quodlibet - www.quodlibet.it -, via Padre Matteo Ricci 108, 62100 Macerata, pp. 190, euro 16,00) è il diario di quell'incontro. Ilana Shmueli, che sta ora curando l'edizione completa del suo epistolario con Celan, e ha già tradotto alcune sue poesie in ebraico, non dice esplicitamente quel che avvenne fra loro. Sono invece le parole di Celan a dirlo, perché «in modo conciliante non si possono scrivere poesie». E così, attraverso queste pagine che sono un po' liriche e un po' diario di viaggio e un po' triste rievocazione di lontano, si disegna un incontro d'amore: il lettore lo trova scritto con intensità lampante nei versi, assai meno certo nelle frasi di lei. Ma c'è respiro di Cantico negli accostamenti di sguardi, in quel continuo entrare in lei del poeta, con grazia e con passione, con necessità di vita. Questa specie di amore proseguì dopo il viaggio di Celan, Ilana provò a raggiungerlo a Parigi ma forse non trovò più quel che cercava: restavano solo lettere, e la memoria di un'irripetibile intensità d'esperienza.
Non hanno tanto a che fare con l'ebraicità della sua poesia, queste parole su Gerusalemme: sono piuttosto graffiti d'amore, tuffi in un passato non da rievocare ma da cui attingere passione. Celan cerca segni, in città, e li trova ad ogni angolo di strada, presso tombe antiche, fra i semini di un fico troppo maturo. Sempre «stavo in te»: lo dice e lo ripete, in tedesco ed in ebraico. E Ilana è la porta che si spalanca.
Che, come in una scatola cinese di memorie, nelle settimane della Guerra del Golfo, rinchiusa nella stanza sigillata per paura di attacchi col gas, macinò dentro l'angoscia del tempo, e con essa il pensiero di far ordine dentro quella esperienza: lei e Celan, prima a Czenowitz, poi a Gerusalemme e infine a Parigi
E' un libro frammentario, ma proprio il ritmo sincopato della narrazione – brani di poesie, rievocazioni, trascrizioni di cartoline postali, note a posteriori, punti interrogativi – illumina il lettore. Che guidati dalla mano di lei, ma sapendo qualcosa su cui lei tace pudicamente, par quasi diventare complici del poeta quando lui ti affida i suoi squarci di sentimenti, il tracciato vivo di ciò che successe.