Sono passati esattamente vent’anni da quando,
Umberto Veronesi, allora Ministro alla
Sanità del governo Amato, avviò un intenso
programma d’innovazione per il ridisegno
degli ospedali italiani, secondo un modello
di “urbanità aperta”. Era l’ottobre del 2000 e
la commissione guidata dall’architetto Renzo
Piano sottolineava la centralità della persona,
l’integrazione con il territorio e la città “sana”,
quali prerequisiti fondamentali per un nuovo
modello di ospedalizzazione ad alto contenuto
tecnologico. Un assetto “a misura d’uomo”
incardinato sull’efficacia dei percorsi clinicodiagnostici,
sull’appropriatezza delle funzioni
terapeutiche, sulla rapidità nella somministrazione
delle cure e nell’organizzazione delle
degenze e, non da ultimo, sulla flessibilità
costruttiva ed ambientale delle strutture.
Temi che oggi ritornano prepotentemente di
attualità. In un periodo di pandemia globale,
le sfide imposte dalla diffusione del COVID-
19, già da inizio 2020, hanno reso evidente
le necessità di ripensare i paradigmi delle
relazioni tra spazio e società, tra dotazioni
infrastrutturali, salute urbana e forme di aggregazione.
Un’emergenza che ci impone una
riflessione su come l’ambiente costruito possa
incoraggiare, o meno, uno stile di vita attivo,
la dipendenza dal trasporto privato/pubblico,
la prevenzione della diffusione di malattie,
così come la percezione collettiva dei divari
sociali, specie in quelle aree a maggiore concentrazione
di popolazione. La densità, nelle
sue diverse accezioni e unità di misura, torna
ad essere un parametro fondamentale di prefigurazione
del progetto, tra il corpo umano
e lo spazio (sempre più urbano) in cui esso
risiede. Una dimensione definita da forme di
isolamento e distanziamento sociale, dalla
definizione di nuovi statuti lavorativi e comportamentali,
ma anche dalle nuove possibilità
offerte dal milieu digitale (internet of things,
logistica just-in-time, e-commerce, smart working,
e-health).
È la risposta — immediata e consolatoria —
di una “urbanità sospesa” che si affaccia dalla
finestra della nostra mente, guardando alla
diffusione degli ecosistemi iper-mediali, quali
luoghi privilegiati delle relazioni interpersonali.
Una condizione in cui l’uomo, quale
essere sociale, non può che rifugiarsi temporaneamente,
dovendo riscoprire la fisicità
dell’azione umana stessa e della cultura urbanistica,
quale strumento di prefigurazione
delle politiche e dei bisogni collettivi, in risposta
al mutare delle strutture socio-demografiche
e dei problemi di risanamento della
città contemporanea.
Su questi orizzonti di ricerca si muove il recente
lavoro di Elena Dorato – ricercatrice e
docente nei corsi di Urbanistica presso l'Università
degli Studi di Ferrara – con il titolo
Preventive Urbanism. The Role of Health in Designing
Active Cities, edito da Quodlibet (2020).
Un saggio che rilegge l’evoluzione degli studi
sulla morfologia urbana e le condizioni di
vita nelle città, a partire dalla dicotomia tra
corpi urbani e umani, tra ambiente costruito
e spazio pubblico, quali fattori determinanti
dell’avanzamento degli studi urbani e delle
politiche in materia di igiene, salute pubblica,
benessere abitativo e cittadinanza attiva.
Il ruolo centrale dell’urbanistica, quale disciplina
fondativa e preventiva atta a migliorare
la qualità della vita delle popolazioni, viene
messo in evidenza da Elena Dorato nell’affrontare
il tema del carattere pubblico degli
spazi aperti urbani, quale condizione in grado
di influenzare direttamente la qualità delle
relazioni umane (benessere psico-fisico),
mediate l’adozione di pratiche innovative di
appropriazione e di uso, che si affiancano ad
azioni quotidiane di cura della città per costruirne
la salute.
Aree pedonali, piste ciclabili, zone 30, interventi
per la sicurezza stradale e moderazione del
traffico carrabile, potenziamento del trasporto
pubblico e della mobilità alternativa, accessibilità
a parchi e spazi verdi sono tra i fattori che
pesano su scelte e comportamenti individuali
(walkability, cyclability), così come la transizione
verso modelli di urbanità più equi e sostenibili,
purché vadano oltre la dimensione circoscritta
del “quartiere”, quale unica scala progettuale di
riferimento per il controllo delle trasformazioni
spaziali in atto.
Interrogarsi sui caratteri strutturali delle Healthy
Cities, richiamando attraverso una approfondita
esamina le radici del binomio tra urbanistica
e salute, significa per l’autrice ribadire
l’importanza del progetto urbano non solo per
la sua natura di prefigurazione del cambiamento,
ma anche come strumento incrementale
che promuova un'ampia gamma di interventi
i cui risultati non vengano semplicemente monitorati
(ex-post), ma che vegano calibrati verso
la ricerca di identità forti (ex-ante), diversificando
le qualità dei luoghi.
Un’urbanità sana e attiva, che torna ad essere
centrale nelle agende politiche contemporanee
espee
parte integrante della questione lefebvriana
del "diritto alla città", non è quella che ha raggiunto
un particolare stato di salute pubblica.
Piuttosto, è un organismo consapevole del
proprio stato, che si impegna a “… mantenere
e migliorare le condizioni di vita dei suoi cittadini.
Attraverso la trasformazione e la gestione
integrata degli ambienti fisici, esso espande le
risorse che la comunità impiega per la gestione
delle funzioni a supporto della vita sociale,
permettendo agli abitanti di essere fisicamente
attivi nella vita di tutti i giorni.” (WHO, 1998;
Edwards & Tsouros, 2008).