Un libro che voglia oggi accostarsi a ciò che di più intimo vive nella scrittura leopardiana non può essere un libro che si limiti a Leopardi. O almeno esclusivamente a
Leopardi. Ormai è circa mezzo secolo che la critica più avvertita ha preso atto di questo
fatto paradossale. Se vogliamo capire Leopardi, dobbiamo necessariamente pensare non
solo al paesaggio mentale italiano ed europeo che gli fa da sfondo ma anche a figure
che permeano l’immaginario collettivo contemporaneo a livello planetario. Benché,
come noto, il nostro poeta-filosofo marchigiano non sia mai uscito dall’Italia e abbia
viaggiato relativamente poco (rispetto ad altri scrittori del suo tempo, come ad esempio
Alfieri o Byron, tanto per non fare che due nomi eccellenti), egli si colloca a pieno
diritto da protagonista in quell’immensa rivoluzione culturale poetica e filosofica, chiamata «Romanticismo» che, a cavallo tra due secoli e intrecciandosi con le conseguenze
socio-politiche della Rivoluzione francese, segna una svolta decisiva, insofferente a
confini disciplinari, nella storia non solo europea, e ponendo le basi per quella che da
Baudelaire in poi sarà riconosciuta ufficialmente come «modernità».
È per questa profonda ragione che lo splendido saggio di Franco D’Intino, più che
una finalità meramente critica, ha in mente un filo argomentativo – sottile, ma tenace
– che attraversa storicamente (secondo una modalità diacronica) ed esegeticamente
(secondo una modalità sincronica) la labirintica scrittura di Leopardi comparativamente
a quella di alcuni importanti autori europei e americani prossimi al poeta-filosofo per
elezione intellettuale ed emotiva, prescindendo da filiazioni o conoscenze dirette e/o
indirette. Si tratta, insomma, di un saggio che ha più il timbro di un affresco comparatistico di storia delle idee, che quello di un excursus strettamente leopardiano. Per
metterlo a punto, lo studioso adotta un metodo che in qualche modo riecheggia, come
spesso avviene nei grandi critici, la struttura stessa del pensiero e della poetica dell’autore da lui indagato: la frammentazione, ossia una procedura per movimenti, alla ricerca
di un percorso attento ad affinità e differenze tra autori, indipendentemente dal fatto
che si siano conosciuti, e sensibile, insieme, al senso profondo della complessa intelaiatura che regge il «sistema» asistematico del pensiero del Nostro, la profondità delle
immagini in cui il suo meditare si invera.
Se ha ragione Alexandre Kojève quando sostiene che il titolo di un’opera è l’opera
stessa implicitamente esposta, mentre tutte le sue pagine sono soltanto l’esplicitazione
discorsiva di ciò che nel titolo si afferma (A. Kojève, Le concept, le temps, et le discours,
Paris, Gallimard, 1998), per tracciare un rendiconto di questo libro bisogna cominciare
dal titolo. Il titolo dice: La caduta e il ritorno. Di quale «caduta» si parla? E di quale
«ritorno»? Questa endiadi potrebbe benissimo indicare la struttura del ‘romanzo di
formazione’ sette-ottocentesco. Si cade da una patria per ritornarvi, ripetendo un itinerario che nel suo farsi terreno assomiglia molto a quella catastrophé che dai tempi più
antichi accomuna il gesto gnostico di alcuni ‘folli’ mistici di Oriente e Occidente, ma
che nella nostra modernità si arricchisce di una variante inedita: il distacco non da un
divino Pleroma per la caduta in un deserto privo di vita, ma da un deserto storico per
il ritorno a un deserto che di vitale ha solo un’immagine, ricordo di un evento mai in
realtà accaduto (non è questo il sovvenire leopardiano? non è questo ciò che vi sottentra?).
Il sottotitolo parla non di «figure», ma di «movimenti». Anche questa dicitura è degna
di attenzione. Mentre l’icona rinvia a una situazione speculativa e creativa statica, il
«movimento» tiene conto di un processo in fieri, sempre mutante. E i movimenti di questo
cammino sono cinque: L’Inizio, Il Consumo, Il Vortice, L’Equilibrio, La Spirale, tenuti
assieme, come fossero la volta brunelleschiana della fiorentina Santa Maria del Fiore
(su cui di recente, sia detto tra parentesi, ha scritto uno splendido romanzo, storicofilosofico un altro grande ‘leopardista’, benché non a tempo pieno, Sergio Givone: Tra
terra e cielo. La vera storia della cupola di Brunelleschi, Milano, Solferino, 2020) da una
‘lanterna’ chiamata Epilogo.
Ma anche per un’altra ragione non siamo di fronte a una mera accolta di riquadri
statici, paratatticamente messi l’uno accanto all’altro come una galleria di ritratti. Perché
tali «movimenti» costituiscono i possibili capitoli del racconto di una vicenda esistenziale, speculativa e poetica, che ha un punto di partenza e un punto di arrivo molto
precisi. I due estremi di questo percorso sono gli scritti leopardiani compresi tra il 1817
e il 1819, da un lato (un primo gruppo di testi il cui arco si tende dal Diario del primo
amore all’Infinito, comprese le due “Canzoni rifiutate”), e dall’altro i Canti pisano-recanatesi del 28-29, saltando a piè pari (o quasi) la produzione intermedia (ossia, in ultima
analisi, la stagione delle Operette, già oggetto di un altro straordinario saggio di D’Intino,
L’immagine della voce. Leopardi, Platone e il libro morale, Venezia, Marsilio, 2009).
Il «movimento» chiamato L’Inizio è caratterizzato dalla frammentarietà: «tale disposizione al tempo stesso emotiva e conoscitiva diviene, soprattutto nell’alveo dei generi
autobiografici, il nucleo generatore di una scrittura che ambisce a ricatturare la pulsione
stessa della vita, recepita in supremi istanti di pienezza, che poi svaniscono senza che si
riesca a fissarne sulla carta la sfuggente complessità» (pp. 41-42). L’A. vede in questa
cifra dell’incompiutezza uno dei tratti tipici non solo di Leopardi (è ben nota la celebre
lettera scritta in francese dal poeta al giovane amico belga Charles Lebreton del 1836,
in cui un Leopardi ormai avviato alla fine, fa il bilancio della propria opera presentandola come un insieme di «essais en comptant toujours preluder») ma di gran parte della
letteratura europea tra Sette e Ottocento (tra i nomi evocati figurano quelli di
Hölderlin, Wordsworth, Coleridge, Novalis, Schlegel, Wackenroder, Foscolo, Stendhal,
Belli, Carlyle, Heine, Balzac, Flaubert), ai quali aggiungerei alcuni protagonisti dell’arte
figurativa e musicale: pittori visionari come Friedrich e Turner, e musicisti dell’«incompiuto», ma anche dell’impromptu come Chopin e Schubert. Personalmente ritengo che
pensare il non-terminato nella sua essenza teoretica sia fondamentale, perché – dopo
la grande stagione filosofica dell’idealismo classico tedesco, che giunge a conclusione
con la teorizzazione della totalità dello Spirito assoluto hegeliano inveratosi nella storia
– la frammentarietà programmatica del pensare rifugge sempre più dal discorso per farsi
immagine. E immagine non della Sintesi comprendente gli opposti nell’Aufhebung, cioè
immagine della realtà fattuale, ma icona della infinita possibilità di essere, di una potenzialità per così dire pura. «Il che – afferma l’A. – ci conduce a un altro tratto comune:
alla scrittura romantica è connaturato un impulso metapoetico. Ciò che essa tende a
rappresentare è proprio questo gesto iniziale, il gesto dell’artista creatore che lotta
contro le costrizioni della forma per ricondurre una materia vitale infinita entro i limiti
di un’opera assoluta [...], cui si chiede di sostituire la totalità naturale (o divina)
perduta».
L’A. ben vede che questa tensione verso l’assoluto si presenta con una sua irripetibile specificità in Leopardi. Gli anni che costituiscono l’incubazione dell’Infinito sono
quelli trascorsi in un lavoro filologico soddisfatto di sé, un periodo di tempo tranquillo,
pervaso di quell’«aura odorifera» emanante dalle odi anacreontee che solo in un
secondo momento verrà avvertito come contrapposto alla vita, e perciò consumato (è la
filologia erudita, strettamente connessa alla philotimìa). Lo Streben, lo sforzo verso un
mondo originario iniziale e autentico, sarà vissuto come impossibile utopia solo dopo la
presa d’atto che la caduta è irreversibile e nessuna totalità è ormai più realizzabile. Ma
laddove il frammento è giocato dagli scrittori romantici inglesi e tedeschi (D’Intino si
sofferma, tra gli altri, su Coleridge, Wordsworth, Schlegel e Novalis) come via per il
raggiungimento dell’assoluto, per Leopardi questa incapacità di concludere rappresenta un
fallimento, e come tale sarà rivissuto, dieci anni dopo, nella stagione di A Silvia e delle
Ricordanze: «Molto si potrebbe dire sulle affinità, e altrettanto sulle differenze tra i
temperamenti di Leopardi e di Coleridge. Un punto però» secondo l’Autore sembrerebbe «di particolare rilievo: di una poesia romantica com’era intesa da Schlegel, in
divenire [...], il primo [cioè Leopardi] sentiva forse il pericolo più che il fascino, in
questo simile a Goethe [...]. Coleridge, invece, forte della propria fede nell’assoluto
divino, valorizza appieno il senso moderno dell’inazione e dello scacco e [...] non ha
paura di considerare fonte di ricchezza ciò che Leopardi chiama “irresolutezza” o “irresoluzione”, perché proprio dall’attrito tra il reale e l’immaginario scaturisce l’energia
vivificante del potenziale» (pp. 71-72).
La tensione verso un sistema è ciò che muove tutta la speculazione e la poetica
leopardiane. L’impossibilità di concludere è per lui una ferita con cui dovrà convivere
fino alla fine, laddove in molti romantici inglesi e tedeschi (Novalis, tra tutti) essa è
programmatica: «La frammentarietà, che nei romanzi di Goethe e di Foscolo [D’Intino
pensa ai romanzi epistolari dell’uno e dell’altro] è un effetto artistico voluto, è qui
invece la conseguenza di un’impotenza che inibisce l’ispirazione allo stadio dell’appunto preparatorio: un essai, un preludio, un inizio che non si compie» (p. 48).
Restare sulla soglia dell’Inizio senza mai concludere significa restare dolorosamente
sul limite della possibilità affinché non divenga mai atto. Sta qui tutto il senso della
«teoria del piacere» teorizzata a più riprese nello Zibaldone e implicita in molti dei Canti
(a mio avviso, come ho avuto modo di indicare di recente, innanzitutto proprio nell’Infinito). L’A. coglie perfettamente il nesso tra questa disposizione emotiva che porta
Leopardi a rifiutare l’oltrepassamento dell’orizzonte e il suo attestarsi su «una dimensione incerta, potenziale, confusa e indefinita, che diventa [...] una vera e propria topica
del pericolo, del rischio e dell’azzardo» (p. 79).
Entriamo così nel secondo capitolo, quello dedicato al Consumo. D’Intino, vero
artista di carotaggi lessicali, passa in rassegna un movimento molto presente nella scrittura
leopardiana, quello del rimpianto per ciò che è andato perduto nella caduta: la vitalità
del corpo e del desiderio, la naturalezza del sentire e del piacere, l’abbandono alla indeterminatezza (potenzialità infinita) del desiderio. I cosiddetti Canti pisano-recanatesi – e
D’Intino si sofferma in particolare sul Canto A Silvia – sono introdotti da una lirica
come Il Risorgimento, in cui si apre la nuova stagione dove il consumo viene sottratto a
una sterilità di pura perdita, per tramutarsi, grazie alla memoria, in una sorta di vita nova
nella quale acquista senso l’interrogazione attorno all’«uomo in sé» che Leopardi evoca
in una famosa lettera al Vieusseux, presentandola come suo unico centro di interesse.
Qui però mi sentirei di dissentire parzialmente da quanto afferma l’A., il quale accosta
questo «uomo in sé» ai tre temi avvertiti da Wordsworth come centrali per il suo
Eremita: «l’uomo, la natura, la vita umana». L’uomo in sé di Leopardi non mi sembra
affatto l’uomo di natura, né l’uomo concepito come bios, ma l’ente che, tra gli enti, dà
senso all’essere pensato nella sua totalità esistenziale (e dunque capace di coinvolgere
nel suo vortice, natura e vita) e contrapponendosi (o essendo identico) al nulla. Sta di
fatto che sulla “figura” del consumo viene letta l’intera lirica A Silvia: mentre Giacomo
spendea la miglior parte di sé sulle «sudate carte», Silvia consuma la propria giovanissima
vita tra il canto e la faticosa tela. D’Intino squaderna un’infinità di citazioni bibliche che
rafforzerebbero l’idea della caduta come trasgressione al divieto di guardare. Silvia «non
vedeva il fior degli anni suoi», e l’A. nota in questa impossibilità una «sorta di contrappasso» (p. 91). Anche qui avanzerei qualche riserva sulla liceità dell’accostamento tra lo
spendersi della giovinezza di Giacomo nelle «sudate carte» e la «faticosa tela» di Silvia
(che mi sembra un po’ forzato), come la correttezza della sovrapposizione di “ragionare” a “conversare”, termini che l’Autore considera implicati in una sottesa malizia di
tipo sadiano («una mondana perfidia», p. 130), associata all’«eccessivo sviluppo della
vista» (p. 91). Gli sguardi «innamorati e schivi» non equivalgono però, a mio avviso, alla
volontà di vedere che ossessiona l’uomo moderno nella sua determinazione di impadronirsi dell’ente trasformato in oggetto di conquista, costituendo piuttosto un gesto che
contiene in sé lo Streben e insieme il nascondimento pudico dell’io intento a sottrarre
il proprio corpo all’oscenità del vedere. Lo sguardo innamorato e schivo mi sembra in questo
senso affine al guardo in parte escluso dalla siepe dell’Infinito, e che l’io poetante, sedendosi, porta all’esclusione totale, permettendo così l’emergere della finzione ossia la creazione dell’immagine potenzialmente inafferrabile del desiderio. Queste personali
riserve nulla tolgono alla profondità dell’indagine ermeneutica condotta dall’A. Aprono
piuttosto una questione: fino a che punto Leopardi si contraddice quando afferma la
naturalezza «di quel tal genere di sensibilità con cui l’uomo suol riguardare la donna,
e la donna l’uomo, ed essere trasportato l’uno verso l’altra» (Z., 3303), e contemporaneamente denuncia l’artificio del desiderio sessuale moderno dovuto alla copertura dei
corpi? Secondo D’Intino, per Leopardi la natura originariamente sarebbe nuda. Poi
subentrerebbe la civiltà che la ricoprirebbe con un velo di cui il vestito indossato dal
corpo umano sarebbe concreta rappresentazione. In realtà, a mio avviso, per il Nostro
la natura è già da sempre coperta da un velo: la nudità è velata dall’incanto dell’apparire
iniziale, e in quanto tale non si mostra come velo per l’uomo originario, ma come vita
nuda, ossia refrattaria a ogni costrizione rappresentativa. Per questa ragione il manoscritto del Canto Ad Angelo Mai (1820) al v. 101 è così tormentato nel qualificare il
«vetusto velo», identificato con il «beato error»: «LA FRAUDE ANTICA E ’L PURO
VELO. [¬] le nubi e ’l prisco, Nitido, Lucido. Fulgido, Spendido velo. E ’l bianco, puro,
vago» (Edizione Peruzzi). Ciò che trasforma la vita nuda in nuda vita, ossia in mero
meccanismo funzionale, è lo sguardo clinico della scienza che individuando il nascondimento lo svela nella sua arida realtà di velo, trasformando il manto (l’ammanto) nel
«mantello dell’incivilimento», cioè in una copertura artificiosa (in quanto mette a nudo
l’artificio), che può essere rimossa solo da un ostacolo (capace di permettere un
fulmineo oblio) restituendo così quel «velo» naturale alla cosa e dandole quella vita che
aveva perduto. Questo velo non è colto dall’uomo originario in quanto velo, e quindi
in sé non è neppure un velo ma un darsi originario della natura, per la quale soggetto
e oggetto non esistono, essendo intimamente fusi tra loro nella radura dell’essere (mi
si perdoni questo prestito dal linguaggio heideggeriano, ma non so trovare una metafora
più efficace). In buona sostanza, a mio avviso, il pensiero dominante di Leopardi, anche
se non sempre consapevolmente, ha di mira la restituzione dell’ente all’essere, ovvero
a quella dif-ferenza che permetteva alle cose di mostrarsi originariamente nel loro
splendore, cioè nella forma del mito, pur restando all’interno della corporeità. Questo
spiega il perché la nudità originaria (illusoriamente velata) potrebbe benissimo accompagnarsi con un tipo di amore che nulla ha a che fare con l’amore moderno, il quale,
al contrario, si realizza proprio grazie al mantello dell’incivilimento che copre, con i
corpi, il loro darsi immediato. Un offrirsi immune dalla pretesa di avere di fronte a sé
un ostacolo necessario per la loro «finzione». Ne consegue che la spiritualità moderna,
così come concepita dal Nostro, sarebbe perciò parzialmente, ma sostanzialmente,
diversa da quella pensata da Schlegel e dai romantici tedeschi. Per loro lo spirito è creatore di energia, mentre per Leopardi è del tutto mortifero (o, al massimo farmakon come
il viaggio lo è per Colombo e per chi crede di sfuggire alla «cura» con lo spostarsi da
un luogo a un altro). Leopardi, in realtà, denuncia l’amore moderno come puro voyeurismo, immanente nella riduzione del corpo a mero oggetto. Nel Novecento, il sociologo
francese Jean Baudrillard avrebbe visto con estrema chiarezza come la nudità moderna
ia in realtà un rivestimento, una «seconda pelle» fatta di unguenti e di chirurgia plastica
(Jean Baudrillard, De la séduction, Paris, Galilée, 1979). Anche nel mondo antico la nudità
era coperta da un abito che, a differenza da quello moderno, era «lavorato dall’immaginazione» (Z., p. 2941), cioè dal ruolo mitico che le veniva attribuito dalla comunità.
Il terzo capitolo, Il Vortice, sviluppa in un complesso disegno comparatistico, il tema
della funzione distruttiva dell’analisi e dello sguardo clinico moderno, ed è dunque il
movimento della mutazione della soggettività (p. 211). Come noto, Leopardi usa il termine
«mutazione» più volte nella sua opera (basti pensare alla pagina zibaldonica del 1820
in cui parla di una propria metànoia, verificatasi nel corso del ’19 – l’anno dell’Infinito
– dalla poesia alla filosofia). Lo sguardo analitico, secondo D’Intino, afferrando l’io in
un movimento vorticoso, lo trascina in uno sdoppiamento dove il soggetto è insieme
«lepre» e «cacciatore»: «Il corpo della natura, e dunque della Naturpoësie, è nella mo -
dernità come quello di un animale braccato, sfuggente come un “impromptu”: più
veloce del cacciatore, riesce a nascondersi prima di essere raggiunto, salvandosi dall’analisi spietata che l’avrebbe ucciso, e lasciando dietro di sé orme intricate e false» (p.
209).
Tuttavia, lo sforzo energetico richiesto per sottrarsi all’analisi, e dunque allo smembramento della “cosa”, porta l’io a una situazione di squilibrio che deve essere ricondotto allo stato di quiete. Ed è questo processo, osservato dall’A. nella comparazione tra
Leopardi, Coleridge, Wordsworth e Goethe, a essere al centro del quarto movimento:
quello dell’Equilibrio. In questo capitolo, estremamente complesso e che è difficile sintetizzare in poche righe, D’Intino dà, a mio avviso, il meglio di sé. È il racconto del
percorso che porta all’origine della poesia moderna, fondata su un «crimine» inconfessato, ossia sulla produzione di uno «squilibrio» tra io e natura che va riportato entro
il «limite»: è la contromisura al «viaggio del vecchio marinaio colidgeriano, un Ebreo
errante, un Faust, un Caino [...] che è spinto da una “tempesta” impetuosa [...] verso
il sud: la sua nave, tesa in avanti, si avventa sulle onde con una furia degna di Faust,
quasi si precipitasse correndo sull’ombra di un nemico» (pp. 213-14). Qui sta la «grande
poesia narrativa del ritorno a casa» (p. 222). Ma l’approdo alla terra da cui si è partiti non
significa per Leopardi, come avviene invece per gli altri poeti cui è messo a confronto,
una redenzione. Il canto di Silvia preannuncia, in questo senso, la «tomba ignuda» indicata
dalla sua «mano» (che è quella metaforica della «Speranza» caduta o quella di Silvia
defunta?) come termine ultimo di un tentativo fallito di riscatto. Fallimento che, però,
non estingue la pienezza del «canto» della fanciulla e l’equilibrio ritrovato nella quiete.
E questo, paradossalmente, proprio perché non c’è nessun dio da ritrovare, nessuna
trascendenza sostanziale da riconoscere nell’immanenza del mondo. La «quiete» è possibile proprio perché il soggetto ha rinunciato allo sguardo straniero di «cosa veruna...
spettatrice» cosi come Leopardi lo evoca sul finale di Alla primavera» (1822). E non si
tratta solo della rinuncia a uno «sguardo umano», come D’Intino sembra credere, ma
anche a quella di uno sguardo divino: «Una tranquillità, una quiete che trova sommo
compimento perché non c’è uno sguardo umano, lo sguardo di uno “spettatore disturbatore”» (p. 234). Non è possibile soffermarsi qui sulle sottili analisi comparatistiche
condotte dall’A. tra Silvia e altre figure femminili «lunari» presenti in alcuni scrittori
europei del Romanticismo (tra questi privilegiati sono gli inglesi). Ciò che, tra i numerosi passaggi di questo capitolo sembra tuttavia da sottolineare come particolarmente
importante è la relazione stabilita da D’Intino tra Lo spavento notturno e i Canti del ’28-
’29. Questo Idillio, composto nello stesso anno dell’Infinito, ha sempre presentato una
ua problematicità, sia in merito alla concezione, sia in merito alla “storia editoriale”.
Quale sotterranea ragione porta Leopardi a riprendere questa lirica, nell’edizione
Starita del ’35, dopo averla espunta dall’edizione dei Canti del ’31? D’Intino ne ripercorre sapientemente la storia, mostrando in modo incontrovertibile che le «figure» in
essa implicate attraversano tutta la vicenda esistenziale e creativa di Leopardi, fin dalla
Storia dell’astronomia (1813) per approdare alla Ginestra e al Tramonto della luna: «Fin
dalla Storia dell’astronomia, dunque, tre ambiti dell’immaginario sono in gioco: (i) il
timore della malattia e della morte, rappresentata dal cadere, dallo staccarsi da un tutto
[...]; (ii) la perdita della luce (l’oscurarsi, lo spegnersi o annerirsi); (iii) l’espressione
sonora di questo trauma (i gridi, dei cani, lo stridere)» (262). Tutto questo porta alla
definizione di una mappatura dell’immaginario poetico e speculativo di Leopardi, il
quale sarebbe alla ricerca di un equilibrio (forse impossibile), in cui ricomporre
quell’«interezza che è andata distrutta; processo lento e difficile, anzi impossibile, se non
attraverso una forma sostitutiva, parziale e frammentaria, che ha preso il posto del tutto»
(p. 267).
Entriamo così nell’ultimo movimento, quello della Spirale, che giunge al vertice di
quella cupola cui accennavo all’inizio, tenuta insieme dall’Epilogo finale. Anche per
Leopardi, come per i maggiori rappresentanti della poesia romantica, il movimento del
pensiero proteso all’impossibile cattura dell’assoluto, si ripiega in una linea elicoidale,
volta a ritrovare la naturalezza perduta. Ora, questa «spirale» (che, sia detto tra parentesi,
a mio avviso sarà ripresa nell’idea nietzschiana dell’«eterno ritorno» e che molti anni
fa Cesare Galimberti aveva colto avanzando la proposta di un Leopardi «patrocinatore
del circolo»), secondo D’Intino – ed è un’intuizione assai suggestiva – corrisponderebbe «al principio performativo della “voce” o del “suono”, che, volatile e fluttuante
come la vita, segue misteriose leggi organiche di sviluppo» (p. 289).
Qui dunque si realizza quel «ritorno» di cui si parla nel titolo del saggio, e che funge
da punto d’arrivo di una parabola critica di straordinaria compattezza, pur nell’attraversamento di territori eterogenei tra antico e moderno: «Con la frattura del moderno
[...] la perdita dell’univocità del senso, del legame tra le parole e le cose fa sì che l’autore
torni di nuovo a considerare ciò che scrive da un lato come qualcosa di intimamente
personale, incomunicabile, e dall’altro come un che di estraneo e incomprensibile a se
stesso, costretto a porsi nei panni di interprete del proprio io segreto» (p. 305): che è
la cifra fondamentale del poetare moderno e contemporaneo (si pensi solo a Montale
e a Zanzotto).
Nell’Epilogo, la figura di Adam Bede, protagonista dell’omonimo romanzo di Mary
Ann Evans (in arte George Eliot) viene posta come emblematica del percorso tracciato
nella finissima trama del saggio: la persuasione ritrovata di una «felicità in minore», ossia
di una condizione emotiva ed esistenziale conscia della perdita irreversibile dell’Eden,
ma ciononostante ancora sopravvivente nel canto e dunque in una ritrovata oralità
melica pur «consapevole della finitezza e della fragilità umana» (p. 335).