Recensioni / Franco D’Intino, La caduta e il ritorno. Cinque movimenti dell’immaginario romantico leopardiano

Che Leopardi non solo possa, ma debba essere letto all’interno di una costellazione pan-europea – e per la quale l’assenza di termini migliori ha consolidato l’uso del termine “romantico” – è considerazione che solo in italia abbisogna di giustificazioni e distinguo: non per provincialismo, sia chiaro, ma per ragioni storiche ben note, le quali hanno polarizzato in senso ideologico termini altrimenti neutri. È con sollievo, dunque, vedere accantonati fin dall’introduzione, in questo libro, dibattiti figli di altri conflitti, e andare diritti al punto: che la letteratura che chiamiamo “romantica” è figlia di una rivoluzione delle coscienze, dei costumi e dei rapporti di produzione di cui la rivoluzione politica, scoppiata in Francia nel 1789, è solo uno dei picchi più visibili; e che gli autori di questa età, anche da prospettive antitetiche in termini di poetica o di ideologia, registrano lo choc culturale che segue a tale mutazione, dando risposte che possono pure divergere – tra nazionalismo e cosmopolitismo, conservazione e rivoluzione, culto della forma e sperimentalismo –, ma che restano, in ogni caso, tentativi di risposta a una crisi in atto. La caduta e il ritorno analizza i modi in cui Leopardi, da una prospettiva forse più angusta rispetto ad autori a lui coevi – ma forse proprio per questo più interessante –, incorpora e cerca di dare un senso allo choc culturale del moderno. In conformità con l’assunto di partenza – ricostruire, come da sottotitolo, l’immaginario romantico leopardiano – l’a. costruisce, per tutto il testo, una fitta rete dialogica che mette leopardi in relazione ad altri spettatori e interpreti della stessa crisi, primo fra tutti Samuel taylor coleridge. e siccome la crisi romantica è – anche – una crisi del senso e della forma, il saggio non può non incorporare nella propria stessa struttura la frammentarietà e il moto, l’instabilità e la mutevolezza del pensiero in movimento di cui tratta. Di qui un libro che incoraggia, e in modo scoperto, una lettura critica e aperta, che non si limiti ad assimilarne le tesi ma si abbandoni alle derive – e ai piaceri – dell’intertestualità. La caduta e il ritorno è strutturato in cinque “movimenti”: termine mutuato dal mondo della musica, e che implicitamente assimila il libro a una sinfonia, a una suite. il tema, per continuare con la metafora musicale, è evidentemente A Silvia, il cui testo è peraltro posto in esergo, integralmente, come ad annunciare che La caduta e il ritorno è – anche e soprattutto – un lungo commento al canto del 1828. Non stupisce: questo libro, fra le altre cose, porta anche a compimento un lavoro venticinquennale, iniziato nel 1994 con il fondamentale saggio I misteri di Silvia, proseguito l’anno seguente con l’edizione critica degli Scritti e frammenti autobiografici – nella quale tanta parte veniva data, nel commento, alle inaudibili (nel senso di Keats) canzoni di teresa Fattorini e di Maria antonietta – e affinato, più di recente, nella monografia L’immagine della voce (2009), che ritornava sulle stanze di A Silvia come esperimento scritturale abitato dal fantasma di una voce perduta. in tutti questi lavori, l’a. ha progressivamente affinato un’innovativa lettura di A Silvia come testo caratterizzato da una peculiare instabilità di senso, che al motivo funerario del canto “in morte” affianca un motivo parallelo di sopravvivenza e rinascita: caduta e ritorno, ancora, che nel loro ciclico alternarsi riattivano, nel cuore della restaurazione papalina, i riti di rigenerazione delle liturgie eleusine, in seguito incorporate nelle ritualità pasquali.
I cinque movimenti, definiti da altrettanti capitoli, delineano traiettorie che attraversano l’intero corpus leopardiano. il primo, L’Inizio, contestualizza un’ossessione antica di leopardi – l’idea di non aver mai composto, in fondo, che preludi, abbozzi di opere mai compiute – nel quadro della nostalgia romantica per il magnum opus, l’esperienza totale che in un’indefinibile “antichità” poteva ancora essere possibile, e della quale l’autore “moderno” può solo riportare in terra frammenti e lacerti incompiuti (immediata l’associazione con il Kubla Khan di Coleridge). al tempo stesso, è proprio la modernità ad aver proiettato l’artista in una lacerante tensione fra l’infinito e il nulla, fra desiderio di grandi azioni e senso dell’inanità dell’agire. Di qui il secondo movimento, Il Consumo, particolarmente idoneo a definire un autore – come Leopardi – per il quale l’impasse dell’artista moderno non si risolve nella stasi, ma anzi in una moltiplicazione anti-economica dello sforzo, una dépense, nel senso dato al termine da Georges Bataille, aristocraticamente accettata come inevitabile: allo stesso tempo, il consumo è anche la “consunzione” che non manca di lasciare vittime – teresa Fattorini su tutte –, forza motrice di un universo cieco e instancabilmente proteso verso l’inorganico. Questo moto universale è al centro del terzo movimento, Il Vortice: formula di pathos che esprime l’essenza di un universo privo di finalità o scopo, il vortice esprime, anche visivamente, l’incessante mutazione a cui ogni vivente è condannato (e che si svela anche, insospettabilmente, come sorgente energetica). il vortice è, di conseguenza, anche quello di un’opera – come il testo leopardiano – che non cessa di ritornare su se stessa, mutando di concerto alle mutazioni di un io che non è mai quello del giorno precedente né di quello che segue; ed è, pure, il moto incessante della modernità frenetica, analizzato, con toni non dissimili da quelli leopardiani, nel Faust di Goethe (altra presenza costante nelle riflessioni dell’a.).
E tuttavia, come in ogni struttura ciclica, anche il vortice può e deve riversarsi nel proprio opposto: superata la metà del libro, dunque, troviamo L’Equilibrio, quarto movimento in cui l’a. – con l’ausilio, ancora, di coleridge e Goethe – esplora i percorsi del ritorno, della redenzione e della salvezza nell’opera leopardiana, contrapposti, nella simmetria interna del volume, al “consumo” delineato nel secondo capitolo. Siamo pronti allora al quinto e ultimo movimento: quando, presa coscienza che una salvezza è «possibile», ma anche «da riconquistare ogni volta, […] in un nuovo racconto» (p. 280), è l’emblema de La Spirale a dar conto di un pensiero che non può, al compiersi del viaggio, che ritornare da dove è partito, come già Novalis ed Heinrich von Kleist (fra gli altri) avevano intuito. Ri-leggersi, ri-scrivere, ri-fare – tutti movimenti di cui il testo leopardiano offre molteplici testimonianze – diventa dunque l’unica possibilità, per il soggetto moderno, di riaccedere a quel tempo ciclico (il tempo del mito) in cui ciò che si credeva perduto può palesarsi di nuovo: e a partire da Silvia-Kore, la ragazzina indicibile rievocata con efficacia e grazia in un libro di Giorgio agamben di qualche anno fa. E il lettore che si trova, infine, a chiudere La caduta e il ritorno, scopre di aver ugualmente partecipato – in un’epoca in cui la critica si riassume, spesso, in intenzioni e preludi, progetti e prolegomeni – di una lettura complessiva e totale, di quelle che si fanno sempre più raramente, di uno degli autori più complessi e impegnativi del canone italiano: ed è spinto, com’è forse inevitabile, a ri-cominciare la lettura.