Recensioni / Diario, epistolario, e raccolta di versi, Ilana Schmueli racconta il suo Celan

Il “destino” di essere ebrei
La ricerca e la speranza di una patria, il viaggio a Gerusalemme, la disillusione definitiva nelle ultime poesie di Paul Celan

Nel suo nucleo centrale, questo libro è qualcosa di più di un diario e un po’ meno di una confessione. Composito e complesso eppure monocorde, nell’intreccio delle due voci che ne scandiscono i ritmi: le voci di Paul Celan e di Ilana Schmueli, l’amica d’infanzia, anche lei ebrea, anche lei originaria di Czernowitz, che il quasi cinquantenne poeta (lei è di poco più giovane) incontra di nuovo a Parigi, scampato a ventunanni di fughe, esili e vagabondaggi. Nasce tra i due un sentimento intenso, che si rafforzerà durante un soggiorno di Celan a Gerusalemme, dove lei vive e dove per un attimo il poeta accarezza la speranza di poter trovare la sua più autentica, definitiva patria. Così due mesi dopo, per il Natale del 1969, è Ilana ad abbandonare il marito e il figlio per correre a Parigi, nel tentativo di costruire assieme all’amico ritrovato, liberandolo da una solitudine psichicamente pericolosa, una comunanza esistenziale. Il tentativo fallirà e pochi mesi più tardi, nell’aprile 1970, questi si darà tragica morte. Del fugace ma profondo rapporto il nostro libro è in qualche misura il diario e la confessione, sdipanandosi lentamente tra i versi man mano inviati da Celan alla donna (e qui riprodotti anche nella forma autografa), brani di lettere e di conversazioni così come ricordate da Ilana a trenta anni di distanza. Due anime che si cercano e si aprono, trentadue poesie, le ultime scritte da Celan: il risultato è questo “Dì che Gerusalemme è”, un gioiellino di memorialistica.
Si può vivere di “destino”, sul “destino”? Chi non è assalito a volte dalla domanda, d’improvviso e in un trasalimento, in un qualunque momento della giornata? Succede, càpita a tutti, ma quasi sempre la domanda rimane senza risposta: chi di noi ha il tempo necessario per ascoltare, solo ascoltare, puramente e semplicemente, la voce del destino? Negli stravolgimenti dell’inautentico che ci circonda e ci attraversa (ci attraversa, soprattutto) anche questa minima possibilità ci viene negata. Celan, invece, vive dentro la terribile domanda, è irretito ad ogni istante dalla ossessiva voce. Il destino si fa tutt’uno col suo esistere: e dunque con la sua poesia. Nella accezione che lui le attribuisce, la poesia è la “surreale” controparola (Gegenwort) che può liberarci dall’assedio dell’inautentico, appunto, e ci fa sperare di incontrare “l’altro, un altro” (ein Anderes) nella dimensione - per essere espliciti fino in fondo - dell’“assoluto”, nella sua accezione laica e umanistica, beninteso. Qui è il succo, il magistero di una poesia totalmente visionaria (come - vogliamo ricordare - della poesia di una non meno tragica e grande figura del novecento letterario italiano, anche lei una ebrea, un’apolide sballottata qua e là dai marosi della guerra, Amelia Rosselli).
E adesso storicizziamo un po’. Nel risvolto di copertina dell’edizione italiana (1983) di una famosa raccolta di Celan, “Luce coatta”, Giuseppe Bevilacqua osservava che questo poeta conduce dritti dritti alle “ragioni di fondo della crisi contemporanea”. La definizione si attagliava bene ad un tempo (la raccolta apparve nel 1970) di generale, ancora faticosa, crisi storico-politica della Germania e dell’Europa, sofferta e registrata dunque da altri poeti e letterati, tedeschi ma non solo. Va bene ancora oggi? Difficile risposta, però l’annotazione regge sicuramente per quanto si connette alla “crisi” ebraica e alla vicenda di Israele, che ci appare non ancora conclusa ed anzi sempre sottoposta a drammatici rivolgimenti ed incidenti, in continuo rischio di irreparabile catastrofe. Della “crisi” ebraica Celan si sentiva intimamente partecipe, e non solo per l’incancellabile ricordo delle esperienze giovanili (benissimo tratteggiate dalla Shmueli in pagine forti ed evocative). Spesso e quasi ossessivamente ritorna nei suoi discorsi l’espressione “ciò che è stato”: una metafora per eludere il termine impronunciabile, “Olocausto”. Celan si reca (“in pellegrinaggio”, ammette) in Israele anche, e forse soprattutto, per cercarvi una stabile casa e patria. Ma la sua poesia è sempre intinta nei colori di un sofferto ebraismo. “Le mie poesie - scrive ad un amico - implicano il mio ebraismo”. Tutte diverse e tutte uguali, nella loro scabra perfezione queste brevi composizioni sono dense di oscurità “esoteriche”, tese alla ricerca - abbiamo detto - dell’”altro” e dell’assoluto. Siamo all’estrema fase della parabola del poeta e, come mai prima, in esse il periodo, la sintassi, si dissolve: restano le nude parole, schegge di ossidiana, primitive, taglienti punte di freccia. Non si aprono al dialogo, anzi divaricano ed esacerbano l’eterno conflitto tra le due, opposte, vie del comunicare. Delle due la prima, quella della ricerca dell’“altro”, esce il più delle volte sconfitta, almeno storicamente, rispetto alla via del “dialogo” che si instaura tra “eguali”, tra “pari grado”: forse, però, non “metafisicamente”…
La presentazione, le traduzioni, le note e insomma l’apparato, curato da Jutta Leskien e Michele Ranchetti, nonché la vesta grafica sono, come sempre in queste rare edizioni, impeccabili.
 
 
I Poli estremi
 
Sono in noi,
invalicabili
nella veglia,
nel sonno oltrepassiamo, sino alla porta
della misericordia,
 io perdo te a te, questo
è il mio conforto di neve,
di’ che Gerusalemme è,
dillo, come fossi io questo
tuo bianco,
come fossi tu
il mio,
come potessimo essere noi senza di noi,
io ti sfoglio, per sempre,
tu con preghiere, tu con giacere
ci liberi.

Avenue Emile Zola, 21.II.1969