Recensioni / Cult. Come apprezzare il poeta, filosemitismi a parte. Da Gerusalemme un Celan a fior di labbra

Si tende, purtroppo, a leggerlo con le sopracciglia aggrottate, il capo chino, un'espressione di accorata mestizia negli occhi, un'inflessione di dolorosa gravità nella voce. L'atteggiamento solenne si addice alla lettura di un'opera unanimemente ritenuta l'espressione più emblematica della più drammatica tragedia del Novecento europeo. Assegnare però, in via pregiudiziale, alla poesia di Paul Celan - ebreo, orfano di genitori deportati e uccisi (a Bug, 1942), vittima egli stesso di deportazione (a Tirguliu, 1943), esiliato dalla nativa Romania (a Vienna nel '48, poi a Bucarest, poi a Parigi), infine suicida (1970) - quella gravitas che il poeta stesso, in vita, respinse con un certo disagio, rischia di pregiudicare una sincera corrispondenza ai suoi versi. Il pregiudizio filosemita può essere deleterio quanto il suo opposto. Fuorvia. Induce a innalzare un'esperienza biografica e poetica singolare al piano universale (generico?) della sciagura di un'epoca, dell'offesa all'umanità tutta, dell'oltraggio ai valori dell'intera civiltà.
Celan, cui la Germania guarda con reverenza, cui anche l'Italia, dall'epoca della pubblicazione del Meridiano Mondadori (uscito nel '98 per la cura di Giuseppe Bevilacqua) riserva un doveroso (obbligato?) culto, disapprovava una simile emozionata popolarità. Tentato di disconoscere il suo componimento più celebre e citato, quella Todesfuge, Fuga della morte (dove morte è «ein Meister aus Deutschlend», «un maestro di Germania») composta come una partitura musicale che Celan si rifiutò per tutta la vita di «eseguire» in pubblico, di leggerlo cioè ad alta voce. Quando era l'autore stesso a leggere per gli amici - pochi amici, qualche volta uno soltanto - le proprie poesie, intonava la voce come per cantare. Con fiorita maniera in gioventù, ai tempi in cui, a Czernowitz (nella Bucovina un tempo austroungarica, poi rumena, sovietica, infine ucraina), ancora rispondeva al nome di Paul Antschel. O, più tardi, negli anni dell'esilio in cui mutò la propria firma in Paul Celan, con trattenuta, misurata sobrietà.
Dobbiamo il ricordo della voce recitante del poeta al racconto di Ilana Shmueli, che della cerchia eletta dei suoi amici fece parte sin dall'infanzia. Come lui nata nell'ex estrema provincia sudorientale dell'Impero, Ilana conobbe Paul ragazzino, in quell'ambiente di cultura austro-tedesca, di impronta multietnica (accanto alla maggioranza degli ebrei ci vivevano rumeni, ruteni, svevi, polacchi, uzuli, zingari), di inesaudite aspirazioni occidentali che avrebbe profondamente inciso sull'ispirazione del lirico. Come lui sfuggita alla sciagura del totalitarismo, emigrò in Palestina, dove vive dal '44. E dove, nel '69, un anno prima di morire, l'amico si recò a visitarla, decidendosi finalmente a partire, più che per la Terra Promessa, per un'ultima impossibile patria.
Due coincidenze biografiche cruciali. Due date - gli anni Venti e Trenta dell'Eurasia entre deux guerres e i Sessanta del ritorno nel grembo di Israele - che segnano significativamente l'inizio e la fine di un percorso poetico e fatale. In mezzo una corrispondenza epistolare intrattenuta in oltre due decenni di esilio e lontananza.
Tuttavia, la storia di Paul Celan, che la conterranea ricostruisce tornando a quei momenti di incontro, non vuole essere un parabola parallela alla Storia del tracollo di un'epoc, ma una vicenda privata. Restituita nella forma di una testimonianza discreta. Recuperata ricucendo quei frammenti di poetica verità inviati per posta, confessati per voce, sempre e comunque elargiti come un dono: in via personale e confidenziale.
Il libro in cui Ilana Shmueli (Di' che Gerusalemme è, ed. Quodlibet) raccoglie il diario dell'amicizia di una vita e le poesie che, ricevute con le lettere di Paul o scritte sotto i suoi occhi a Gerusalemme, davanti alla fortezza di Massada, al cospetto della tomba di Assalonne, furono poi comprese tra i suoi testi pubblicati, presenta del volto e dell'opera di Celan un ritratto commosso e veritiero. L'artista che visse la tragedia dei tempi come un lutto personale e familiare, che per un'estrema solitudine poetica e umana rinchiuse i suoi testi nella più enigmatica oscurità e li frantumò fino a farli ammutolire, che a pochi intimi (i destinatari dei suoi carteggi: Franz Wurm, Nelli Sachs, Ingeborg Bachmann, Ilana Shmueli) riservò le sue confidenze e il dono dei suoi versi, non rivela in questa chiave privata un profilo parziale, bensì quello più autentico e segreto. Lo scrisse lui stesso, in una lettera a Hans Bender:«Le poesie sono anche regali - regali per chi è attento, regali che portano con sé destino».