Tra le molte implicazioni, tutte rigorosamente letterarie. l'accezione "Atlantica" ha reso imprescindibile che lo sguardo a cavallo tra Europa e Americhe di Babel 2020 includesse anche il punto di
vista del palermitano Giorgio Vasta, affermatosi
col romanzo Il tempo materiale (uscito in 11 nazioni. Tra i selezionati del Premio Strega 2009),
anche penna delle pagine culturali di «Repubblica», «Il Sole 24 Ore» e «il manifesto». La 'sua' America è
il viaggio del 2013 divenuto libro nel 2016, intitolato Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani (Humboldt/Quodlibet 2016), una
raccolta di appunti anche visivi (affidati gli scatti
del fotografo Ramak Fazel) delle "reliquie dell'abbandono" dei grandi spazi statunitensi. Deserti
ritratti tramite un insieme di scrittura documentaristica e fiction: deserti tornati di estrema attualità nella più recente forma di abbandono cittadino, in questo caso forzata chiamata lockdown.
Giorgio Vasta. Era il suo primo viaggio
negli Stati Uniti?
Non era il primo viaggio in assoluto. Ero già stato
in quel luogo a sé che è New York. Al contrario del
primo, questo secondo viaggio ha toccato sempre
la provincia più remota, la più dimenticata, in cui
le metropoli, le grandi città non comparivano mai
o, quando comparivano. andavamo a cercarne
aspetti molto particolari. È il caso di Las Vegas,
dove il nostro tempo è trascorso visitando un museo dedicato ai neon, che la città ha compreso
essere il suo monumento più rappresentativo.
I neon delle sale da gioco, dei casino, delle cappelle
nelle quali ci si poteva istantaneamente sposare
hanno caratterizzato lo spazio fisico, generato un
immaginario per poi essere abbandonati in un
pezzo di deserto. Gli americani si sono resi conto
che era importante recuperarli ed è stato creato
un museo a cielo aperto in cui il visitatore passeggia in mezzo a parole deposte in mezzo alla sabbia. Ed è stata un'esperienza molto bella.
Chiedevo se fosse il primo viaggio per
capire la sua reazione di fronte a una
realtà diversa da quella sognata - per
citare le disillusioni di Jackson Browne -
"in books and films and songs"...
È la reazione che, in modi diversi, si determina
tanto nelle grandi città quanto nella provincia, nei
deserti, nelle praterie, in tutti quei luoghi che io e
penso buona parte degli europei abbiamo conosciuto attraverso la sua rappresentazione letteraria, cinematografica, televisiva, una sensazione
comune a molti, quel "io qui ci sono già stato",
perché si è stati attraverso la visualizzazione dei
luoghi mentre si legge un romanzo o la visione
letterale degli spazi mentre si guarda un fim, un
telefilm, oggi una serie tv. Quello che mi ha colpito, però, ed è accaduto all'inizio del viaggio già a
Los Angeles, è stato a Venice Beach: ero certo che
una volta che avessi messo il piede nell'acqua di
una spiaggia così importante negli anni Sessanta
dove s'incontrarono, per esempio, i fondatori dei
Doors, questo posto si sarebbe distaccato dalla
sua rappresentazione e si sarebbe guadagnato
una sua autonomia e una maggior complessità.
Quello che invece è accaduto, e all'inizio mi era
parso un dispiacere, è stato che la rappresentazione di questi spazi è cosi potente che quando
oggi penso a Venice Beach e a tanti altri luoghi
degli Stati Uniti, prima del ricordo della mia presenza in quello spazio c'è l'immagine narrativa
come se le narrazioni fossero più forti, più potenti
e determinanti nelle percezioni che abbiamo di
quei luoghi.
Più forti della realtà?
Si tratta di riconoscere che il legame che abbiamo
da esseri umani con la finzione è inesauribile e in
un certo senso inarginabile, che non può essere
circoscritto a un momento specifica. Quando ci si
muove, e porto l'esempio dei marciapiedi di Los
Angeles, senti la falcata farsi famelica per noi europei non abituati a marciapiedi così ampi, se non
sugli Champs-Elysées. Camminiamo e pensiamo
a film come Un uomo da marciapiede, per esempio. Siamo all'interno di quella che è indiscutibilmente la realtà del nostro corpo, della nostra
esperienza sensoriale, ma allo stesso tempo siamo dentro una finzione paragonabile a quella che
sperimentavamo giocando da ragazzini. Ed è curioso che molti, in Europa, abbiamo soprattutto
giocato agli indiani e ai cowboy, scoprendo a posteriori tutta l'ingiustizia politica del voler essere
sempre i cowboy e mai gli indiani. È come se quella percezione degli Stati Uniti che abbiamo fatto
nostra già durante il gioco non si potesse mai del
tutto consumare, smaltire. Gli Stati Uniti esistono
e sono una grande esperienza di finzione.
È questa sensazione che ha portato
quello che doveva essere un reportage
a divenire finzione?
In parte. Io inizio effettivamente con l'intenzione
di scrivere un canonico reportage e invece mi ritrovo a scrivere un libro in cui le persone sono
subito spostate sul piano dei personaggi. Ma molto si deve a uno stimolo con il quale non era possibile venire a patti, e cioè che quel viaggio è percorso con chi nel libro si chiama Silva, l'editore
che ci accompagna attraverso gli spazi abbandonati degli Stati Uniti, e con Ramak Fazel, il fotografo americano di origini iraniane che conosco
soltanto il primo giorno di viaggio e del quale non
so nulla. Scopro che Ramak è una persona con
attitudine a essere personaggio, allo sconfinamento, a un'intraprendenza gentile ma allo stesso
tempo incoercibile, che mi fa capire che gli devo
andare dietro. Io tendo a restare al di qua e invece
ho il privilegio di viaggiare con qualcuno che cerca sempre di andare al di là. Nel libro si compenetrano quindi alcune cose accadute e altre inventate. senza mai segnalare cos'è successo nella cosiddetta realtà e cosa è stato immaginato ad hoc.
Quello con Ramak è stato a tutti gli effetti
un appuntamento al buio...
Un appuntamento al buio che poi si è trasformato
in un'amicizia che va avanti da sette anni e che ha
visto una seconda collaborazione nell'autunno
del 2016, quando ci siamo ritrovati laddove avevamo interrotto il viaggio del 2013. Ci eravamo salutati a Houston, in Texas, per rivederci lì tre anni
dopo questa volta viaggiando insieme non per
scrivere un libro ma per realizzare reportage per
i giornali sul tema della provincia americana subito prima delle elezioni dell'8 novembre 2016,
vinte inaspettatamente da Donald Trump. Inaspettatamente per l'Europa e le grandi città americane. Durante il nostro viaggio abbiamo incontrato soltanto l'elettorato americano. Abbiamo,
come abitualmente si fa negli Stati Uniti, acquistato un'automobile al volo, quelle cose tanto
strane per noi europei: per rivenderla nel giro di
due settimane, scrivendo sul tergilunotto "For sale" e venendo contattati dai potenziali acquirenti,
trasformando anche questi appuntamenti per la
valutazione del mezzo in occasioni di racconto
della gente incontrata risalendo lungo il Mississippi e poi percorrendo il Midwest fino ad arrivare
a New York la notte delle elezioni. In quell'occasione, di nuovo attraverso l'intraprendenza di Fazel, siamo entrati in luoghi nei quali non avevamo
nessun titolo per stare, come l'Hilton che ospitava
il quartier generale repubblicano, una specie di
punto vista privilegiato per accorgersi di quello
che stava succedendo.
Absolutely Nothing è stato citato durante
il lockdown. Mai, in fondo, siamo stati
così vicini ai luoghi dell'abbandono,
mai come negli scorsi mesi ne siamo stati
così cittadini. Qual è stata la sensazione
per chi ha conosciuto i deserti?
Una prima differenza rispetto alla percezione che
possiamo avere dei deserti noi europei è l'utilizzo
della parola "deserto" come aggettivo iperbolico,
per chiarire che in un luogo non c'è nessuno.
Quella strada è deserta, quel posto é deserto. Per
me deserto è diventato pienamente un sostantivo quando i deserti li ho attraversati. Nel periodo
del lockdown mi affacciavo come chiunque, guardando lo spazio cittadino e lo vedevo vuoto. Questo produceva in me un contraccolpo traumatico
ma anche qualcosa di stranamente affascinante:
mi accorgevo del fatto che non abbiamo mal visto
così le nostre città se non alle cinque, alle sei del
mattino. Abbiamo visto un'alba che non finiva
mai, durata due mesi. Quello che dell'alba canonica ci affascina è che è un transito, una soglia, un
momento di quasi verginità dello spazio e del
tempo, di estrema pulizia. Poi arrivano un passante, un'auto, un ragazzino che attraversa la
strada per andare a scuola, e lo spazio si anima e
questo ci rassicura. Quest'alba ininterrotta ci ha
messo senz'altro alla prova da un punto di vista
sensoriale, cognitivo e immaginativo.
Ha messo alla prova anche lei, come
scrittore?
Le risponderò pensando ai primi giorni. È capitato di sentire amici scrittori chiedersi "E adesso
come faccio?". Qualcuno aveva un romanzo iniziato, con un'ambientazione contemporanea. Come continuarlo? La sensazione che avevo era che
non ci fosse da preoccuparsi. Tutto quello che è
accaduto agisce e agirà al di là delle nostre intenzioni, perché ha riformato delle percezioni originarie. La nostra percezione dello spazio è soprattutto la distanza dei corpi, che non leggevamo più
perché resa innocua dal racconto sociale. I fenomeni più significativi pre-lockdown in Italia sono
stati la movida, che fonda se stessa sulla riduzione al minimo se non sull'eliminazione della distanza tra i corpi, e poi le Sardine, movimento che
già dal nome voleva rappresentare un'idea di protesta attraverso la riduzione della distanza tra i
corpi, che per me è un fatto misterioso, complesso. Quanto è accaduto, a mio parere, ha ripristinato un rispetto - seppur in questo momento soprattutto a partire da criteri sanitari - nei confronti dell'alone che sta intorno a ogni corpo. Aloni che, quando collidono, continuano anche ora a
garantire reazioni silenziose che sono esperienza.
Forse ora ci potrà essere più attenzione e rispetto
per tutto questo. Anche se ho l'impressione che
stiamo già lavorando sull'oblio ed è un peccato.
Non perché il desiderio da parte mia sia quello di
uno stato di emergenza permanente, ma perché
forse il giusto rispetto per quel che è successo, per
chi di questo è morto passa anche dal non pretendere di ritornare. Non si tratta di ripristinare una
condizione interrotta a metà marzo. Si tratta di
andare proprio da un'altra parte.