Un movente esistenziale può essere visto al
fondo delle riflessioni critiche proposte dal
giurista Carl Schmitt fra gli anni 1943 e 1944
e pubblicate nel 1950, ora tradotte da Andrea Salvatore con titolo La situazione della scienza giuridica europea, per l'editore Quodlibet (128
pp., 14 euro). Un movente che esorbita rispetto
alla discussione sulla compromissione di Schmitt con il nazismo e sull'attualità politica del
dopoguerra, temi su cui, anzi, in questo libro
Schmitt glissa prudentemente, ma che il curatore di questa traduzione riordina brillantemente.
Un movente esistenziale che si manifesta, piuttosto, nell'urgenza di ripensare il ruolo del giurista e, di più, della stessa scienzagiuridica, intesa
come la postura interpretativa delle relazioni fra
i fatti storici e gli apparati istituzionali, perché
siano superate le perversioni di una politica ridotta a mero efficientismo tecnico. Questa la domanda che orienta la meditazione di cui Schmitt si sente raro custode: come mettere all'opera il pensiero giuridico e la sua vocazione a confrontarsi con la materialità della storia e con la
legittimità di leggi e istituzioni, in un'epoca che
ha disancorato il diritto pubblico da quella realtà territoriale e spirituale che gli dava un significato?
Fra le cause che sviliscono il dibattito pubblico e
il ruolo della scienza del diritto, il giurista ha di
mira il Positivismo legislativo, l'appagamento
che esso offre rispetto alla sola consistenza interna di un sistema legale e l'ignoranza delle condizioni storiche che hanno dato origine a concetti
inevitabilmente adoperati come semplici parole
d'ordine al servizio di qualsivoglia causa. All'attenzione per l'origine, spesso tumultuosa, di un
ordinamento concreto, il Positivismo sostituisce la mera cura del funzionamento della macchina legislativa, annichilendo così il vincolo alla
storia, coerentemente con la deriva tecnocratica
che già a metà del secolo scorso neutralizzava il
discorso politico e la sua capacità di offrire legittimità e occasioni di significativa contestazione.
Ma la possibilità di collocarsi all'altezza degli ordinamenti concreti è, per Schmitt, minacciata
anche dalla pretesa giusnaturalistica di legare il
diritto a un presunto diritto naturale, che generalizza i termini del diritto e permette a chiunque
di squalificare il discorso dell'avversario semplicemente collocandolo nel non-diritto.
Non basta la correttezza delle procedure formali
a legittimare la produzione legislativa; tanto meno la potenza con cui si ammanta la legge di un'origine eterna e naturale. E lo studio delle relazioni del diritto con l'ordinamento concreto, ossia
la materialità storica e i significati che la strutturano, a riempire di senso, secondo Schmitt, lari -
flessione scientifica giuridica, a darle autonomia. Una riflessione che, per attenersi davvero
al razionalismo europeo e per farsi autentica fonte di diritto, deve riandare, in modo apparentemente contraddittorio, perfino al fondo mitologico alle spalle della storia cui si applica, allo scenario su cui solo possono essere esibiti i significati originari che dettano ordine alla storia. Solo
la scienza giuridica è in grado di operare questa
ricerca, offrendosi come autentica fonde del diritto proprio come i parlanti lo sono per la lingua.
L'ordinamento concreto in cui si sono originati i
concetti del diritto moderno, l'ordinamento tradito dal Positivismo giuridico così isomorfo rispetto agli automatismi della tecnica e disponibile a ridurre il diritto alla legge, è per Schmitt
quello nato fra il XVI e il XVII secolo dalle guerre
civili che piagavano l'Europa, e che va sotto il nome di ius publicum europaeum. È questo ordinamento che una ben praticata scienza giuridica è
deputata a recuperare; ed è in questo compito
che, negli ultimi anni di guerra, Schmitt combina una penetrante genealogia del diritto moderno e il suo appello al giurista perché si faccia custode dello spirito più intimo che anima il diritto europeo - non più solo tedesco. Ma non si tratta, banalmente, di avanzare pretese identitarie,
bensì, prima di tutto, di mantenere salde nella
coscienza politica e giuridica le premesse storiche in cui ha avuto gestazione il diritto europeo,
affinché il momento normativo possa ingranarsi
davvero sulla forma di vita: le sofferenze e il disordine delle guerre di religione, la guerra civile,
la funzione della scienza oggi divenuta tecnica
soverchiante. Principi di civiltà e conquiste giuridiche di cui Schmitt affermala sacralità, sebbene solo pochi anni prima, da apologeta del nazismo, avesse contribuito a distruggerle.
In quest'opera del 1950, Schmitt attribuisce alla
scienza giuridica la capacità, e la responsabilità,
di garantire unità e pace in Europa dopo gli anni
della guerra mondiale. Un compito della cui delicatezza Schmitt si sente tutore, dopo anni di lavoro sulla sovranità. Laddove, dal 1922, il centro
della riflessione schmittiana è la decisione sovrana, a cui non serve diritto per creare diritto, con una graduale, ma sensibile, torsione culminata
dopo il declino del nazismo, lo sguardo istituzionale e giuridico di Schmitt si fa sempre più decentrato: la decisione di cui scrive Schmitt già
dopo il 1934, ma in maniera evidente nel volume che qui si presenta, è privata della sua assolutezza, e incorporata in una realtà istituzionale
che ne vincola le forme e gli effetti. La situazione della scienza giuridica europea offre elementi chiarificatori per l'interpretazione di questo
percorso intellettuale, in cui il decisionismo ricopre uno spazio che la critica ha troppo enfatizzato: in questo libro, la decisione è assunta esplicitamente come elemento problematico; non
più la volontà politica, bensì la scienza giuridica
si incarica di definire in maniera sistematica le
relazioni interne alla collettività, grazie alla sua
capacità di limitare l'arbitrio e di comprendere
lo spirito già circolante fra le realtà in gioco. In
quanto momento riflessivo di prassi relazionali
già in essere, la scienza giuridica può proporsi come motivo di composizione e pacificazione, pare dirci Schmitt, al riparo dalla neutralità asettica dello scenario tecnico-scientifico e, oggi, economico-finanziario in cui si annacqua il discorso politico.
Quella che, correttamente contestualizzata nelle sue tormentate revisioni, in questo libro ci è offerta è una riflessione nutriente, che permette di
ripensare, in termini critici rispetto a Schmitt,
quanto sia preziosa la democrazia, quanto siano
fragili l'equilibrio fra poteri che la tutela e lo stato di diritto. Non solo: Schmitt ci invita anche a
non ridurre il dibattito giuridico e politico alla
sola coerenza interna del sistema legislativo, alla sua formalità neutrale e alla sua sola legittimità procedurale e irriflessiva; certo, per sottrarlo
all'annichilimento tecnocratico e alla sua funzionalizzazione sia in favore di interessi estranei alla concreta storicità della sfera pubblica sia
alla personalizzazione decisionistica, sarà necessario compiere qualche in passo oltre Schmitt, superando la diffidenza della scienza giuridica rispetto alle discipline confinanti e beneficiando delle contaminazioni scientifiche e delle
comparazioni extra-europee.