Diario a due nei giorni di Gerusalemme
Nell’ottobre 1969 il poeta ebreo-tedesco passò diciassette giorni in Israele, intessendo con Ilana Shmueli un rapporto intimo ed eloquente, prima del suicidio. Un libro ne testimonia
Per diciasette giorni, nell'ottobre del 1969, Paul Celan visita Gerusalemme. Sarà il suo unico viaggio in Israele. A fargli da guida è una sua amica d'infanzia, Ilana Slmueli. Ora i ricordi, le sensazioni, le lettere che seguirono quel viaggio e le poesie che ne scaturirono riprendono vita nel libro della Shmueli Di´ che Gerusalemme è Su Paul Celan: ottobre 1969-aprile 1970 (a cura di Jutta leskien e Michele Ranchetti, Quodlibet, pp. 189, Euro 16,00). Non si tratta di una semplice testimonianza degli ultimi mesi del poeta, ma dello sforzo di custodire quello che i due protagonisti hanno definito «il segreto dell'incontro». Non bisogna essere esperti della poesia di Celan per entrare in queste pagine. la terminologia celaniana («meridiano», «respiro», «cesura», «aperto») a cui Ilana Shmueli dà forma non ha bisogno di traduzione, queste parole infatti sono codici di una geografia interiore inequivocabile. Ed è una parola elementare come stehen (stare) a riassumere tutto quello che due bocche possono esprimere: «è una parola significativa che esigeva di figurare sempre in tutte le sue poesie, le sue lettere e i nostri colloqui». Gerusalemme stessa diviene un luogo in cui stare, anche se per poco come sempre, l'ennesimo transito, fuggevole eppure in qualche modo definitivo. La città che Celan ci consegnerà nella raccolta Luce coatta, qui ha i tratti di qualcosa che al tempo stesso attrae e respinge, che potrebbe consentire una seconda nascita, ma che di fatto riconferma l'esilio: «e si fece orfano – anche qui». Gerusalemme diventa un dedalo in cui incontrare vecchi amici, lasciarsi sedurre da mille dettagli, da mille racconti, ma anche un labirinto dal dolori improvvisi, come il passaggio frettoloso davanti al muro del pianto. Un continuo ricadere nella memoria da cui sembra impossibile uscire, come testimoniano le poesie che Celan invia all'amica dopo il suo ritorno a Parigi: confessioni, tentativi di una via di uscita, che si rivelano tuttavia sempre più sentieri interrotti. È uno Celan spossato dalla malattia, disilluso, che sente di poter condividere la propria esistenza solo con pochi. Le lettere spedite a Ilana raccontano l'impossibilità di continuare a vivere all'ombra di una ferita, e come tutto diventi «una sopravvivenza infinita».
Ne è conferma la lettura pubblica che Celan tiene a Stoccarda in occasione del bicentenario della nascita di Hölderlin, il 21 marzo dei 1970. La reazione dell'uditorio è fredda, distaccata. Celan non offre le sue poesie più celebri, già digerite dalla cultura ufficiale, ma presenta dei componimenti inediti, implosi, spezzati: «la lettura pubblica a Stoccarda [...] è stata del tutto ignorata, oppure liquidata come incomprensibile». Poi una cartolina, datata 22 marzo 1970: la torre di Hölderlin a Tubinga, sul retro un solo segno troppo chiaro nella sua indecifrabilità: Stehend «10 sto»: ma dove? Segue un'altra lettura, sempre in Germania, a Friburgo, tra il pubblico Martin Heidegger: anche qui, pero, le reazioni sono contrastanti. Celan sembra incontrare in queste nuove poesie ancora una volta il suo destino: «le mie poesie mi procurano momentaneamente, proprio mentre io leggo, la possibilità d'essere, stare». Ma per quanto? Le lettere si susseguono fino al suicidio, sembrano un calendario alla rovescia, tornano i ricordi del viaggio a Gerusalemme, le perplessità mai esplicitate sulla politica israeliana, la solitudine parigina, attenuata e ribadita dai pochi libri (Mandelˇstam, Kafka, Hölderlin) portati con sé nel nuovo appartamento di avenue Émile Zola, il sentirsi ebreo per poi essere chiamato in Israele «il grande poeta tedesco». «I poli estremi / sono in noi, / invalicabili», scrive Celan a Ilana, che commenta: «possibilità e impossibilità del trovarsi insieme»; eppure in una delle prima poesie del carteggio era scritto: «io stavo / in te».
Ma è proprio questo lambire il confine estremo dell'intimità, che mostra ancora una volta l'impossibilità di trovare una sintesi di se stessi. Qui nasce la necessità celaniana del «tu», l'incontro che fa sì che delle parole divengano una poesia. Ma il «tu» è anche il segno di un destino biforcuto, quello dell'ebreo e del tedesco, dell'uomo e della donna, del sì e del no, di ciò che «mondo era» e di ciò che «mondo rimane», il bere «da due bicchieri». Le lettere e le poesie spedite a Ilana Shmueli disegnano proprio questa altalena di slanci e ricadute, così simile a quella del carteggio tra Kafka e MIlana, una cupa resistenza a quell'illeggibilità dei contorni delle cose che muta il vivere in esistere: i nomi, le date, i luoghi. Gli ultimi mesi dell'esistenza di Celan mostrano come ogni risarcimento al dolore sia impossibile, come l'equilibrio tra vivi e morti sia un'equazione asimmetrica; persino la scrittura, dal ritmi così serrati da fornire materiale per altre due raccolte – Parte di neve (stesa tra il 1967e il 1968, periodo da Celan descritto come «all'orlo della follia») e Dimora del tempo – è una catarsi mancata. Più ci inoltriamo in queste poesie, più avvertiamo che «il prima» e «il dopo» di ogni testo offrono forse l'unica possibilità di dire il mondo: assistiamo all'inedita, e allo stesso tempo antica, crudezza della comunicazione. Forse queste poesie non le comprendiamo, le possiamo rifiutare ma non possiamo non ammettere che ci stanno cambiando.
Ilana Shmueli ha custodito per vent'anni queste parole per poi donarle al Deutsches Literaturarrchiv di Marbach. Un distacco doloroso e contraddittorio avvenuto durante la Guerra del Golfo del 1991, tra gli allarmi delle sirene e le lunghe ore di silenzio: rispedire proprio in Germania ciò che per breve tempo aveva trovato una casa, ciò che parlava di una casa mai avuta. Dare l'addio a quei manoscritti ha significato per lei scriverne la storia dopo trent'anni. La testimonianza di Ilana Shmueli espone una dicibilità altrimenti inesprimibile, quel secondo mondo che in qualche modo dentro di noi arriva sempre per primo, ciò che Celan ha chiamato «meridiano», un taglio nel reale che vive nella consapevolezza che ciò che unisce è anche ciò che divide e viceversa. Una soglia che è anche il confine della stessa testualità di una poesia, quasi fosse un frammento invertito del silenzio. Il «segreto dell'incontro» è allora sia il dialogo tra due volti, sia quello tra una poesia e gli occhi di chi la legge. Come scrisse lo stesso Celan nel 1960: «io non vedo nessuna differenza di principio tra una stretta di mano e una poesia». Ma se una poesia può rappresentare una possibilità di salvezza, un luogo in cui «stare», è, tuttavia, anche il ricordo di tutto quello che è stato tolto per sempre. Ecco allora che l'accostarsi a questo libro lascia la sensazione poi che ciò che un tempo poteva essere detto, adesso non può più essere scritto. «Il mondo da ribaltare, / dove io ospite / sarò stato un nome, / trasudato giù dal muro / a cui alto lambisce una ferita».