Recensioni / Il kitsch ha già vinto, qualunque cosa sia

Pensavo di schiarirmi finalmente le idee sul kitsch (stupendo arcano filosofico ed estetico che mi affascina da sempre e sia lode a Gillo Dorfles) leggendo un bellissimo e oserei dire necessario numero di «Riga» - una delle riviste più belle, meditate, resistenti e "resilienti" che si pubblicano in Italia. Ma il numero 41, appena uscito, a cura di Marco Belpoliti e Gianfranco Marrone (un malloppo di 608 pagine, ¬ 28,00, edito meritoriamente da Quodlibet, conia sola pecca delle immagini, peraltro ottime, in bianco e nero) mi ha fatto uscire dalla lettura con la testa forse ancora più frastornata.
Intendiamoci: non è assolutamente colpa della rivista e men che meno dei curatori: al contrario, la selezione dei testi, la loro disposizione e la loro ragion d'essere nel numero sono tutte cose pregevoli. È che ad essere sfuggente, se non si vuole essere troppo rozzi, è la stessa definizione e il campo di applicazione della parola e del concetto. Anche solo a leggere le «Voci» d'enciclopedia riportate ci si accorge dell'ambiguità, e della pervasività, del kitsch: il nodo filosofico non viene sciolto del tutto, con buona pace delle affannose pagine di tentativi di chiarimento dei molti celebri saggi seguenti (alcuni dei quali datati). Eppure l'intento - e l'urgenza - dell'indagine sul kitsch, da parte di Marrone e Belpoliti è sacrosanta: perché è molto evidente (qualunque sia la definizione che scegliate alla fine di sposare, o tutte) che se c'è una categoria che ha vinto la sua battaglia e forse domina incontrastata nello scenario culturale contemporaneo (aggredendolo da dentro come un cancro) è proprio questa. Il kitsch ha poi un'arma potentissima dalla sua: non solo basta che qualcosa venga bollata come kitsch da qualcuno per diventarlo immediatamente, ma il suo tentacolare e proteiforme potere dilaga ed è impossibile (o inutile) difendersi: forse ad essere kitsch oggi è proprio ciò che tenta di smarcarsi dall'esserlo, e forse la cultura stessa è kitsch. Purtroppo mi pare di poter dire che anche il kitsch ormai è kitsch, e quindi non se ne viene fuori.
In un interessante questionario finale, posto a personaggi diversi per formazione e ruolo (si va da Ferdinando Scianna a Luca Scarlini, da Roberto D'Agostino a Ugo Volli) le riflessioni degli interrogati rispecchiano questa iridescenza e questa disperante progressione del kitsch nella nostra vita. Mi colpiscono alcune risposte e mi sembra di trovare consonanza con alcuni. Tra i più ruvidi e apprezzabili è Seppe Sebaste, che non si preoccupa di rovesciare spesso la prospettiva e di dire che molte domande non sono così intelligenti come pensano di essere. Cí sono poi diversi che se la prendono, sul tema, con i giornali culturali e le loro colpe e questa, suvvia, è un'esagerazione: come se le pagine culturali avessero ancora un ruolo (o potessero davvero definirsi tali): ma forse è ad essere kitsch è questa accusa. O magari lo è quest'articolo, per carità. O forse tutt'e due le cose; o forse, peggio, è la stessa cosa. Perciò non posso che raccomandare la lettura di «Riga», ottimo anche come manufatto cartaceo. La sezione iconografica poteva essere più forte ma è azzeccata, in particolare con le opere del duo Petripaselli, che di questa estetica è alfiere di alto livello. Non so se perché eleva il kitsch ad arte o per il suo contrario. CVD.