Torino è una città che ha sempre generato "mostri": grandi industriali e maghi, sindacalisti e antiquari, in ogni caso
sempre "soggetti", mai in nessun caso mediocrità. Ha generato anche Carlo Mollino
(1905-1973) che sembra incarnare queste
diverse anime: designer metafisico-mefistofelico, con fama da tombeur e flaneur.
Figlio unico del severo architetto Eugenio,
un altro vogherese di stanza nella capitalina subalpina (come Franco Antonicelli,
cugino di Arbasino e istitutore liberale
dell'Avvocato). Disegnerà case private, teatri, condomini, e soprattutto mobili con un
che di peccaminoso-antropomorfo. Re delle case d'aste, i suoi pezzi si battono per
milioni a ogni tornata, come quella di Christie's che alienò gli arredi del marchese
Vladi Orengo (ma poi, anche, fondamentali
edifici pubblici come l'Auditorium Rai di
via Rossini insieme ad Aldo Morbelli, la
sede della Società ippica torinese poi demolita, il palazzo degli Affari e il teatro
Regio).
Oggi Zanotta lo celebra con un omaggio di
otto pezzi aggiornati alle migliori tecnologie, e un catalogo-libro scintillante a specchio, Carlo Mollino Designs, Di Pier Paolo Peruccio e Laura Milan (Quodlibet) che forse sarebbe piaciuto a questo rovinatone delle "nobili cadenze accademiche con disegni turbolenti e fotografie blasfeme" secondo la definizione di Bruno Zevi.
Alla critica e all'accademia non piacevano il dannunzianesimo, la ricchezza di famiglia, lo scarso allineamento, il gusto di bellezza e bizzarria: Mollino è un D'Annunzio montanaro, dunque privo del tocco meridiano delle tamerici salmastre e aspre delle idiozie da bagnasciuga (però, baffone da maschio alfa, epica della conquista muliebre). È come se D'Annunzio avesse sfidato a duello Adolf Loos. Dunque piuttosto un Gio Ponti sciatore, mediterraneo rispetto ai nord-europei milanesi Castiglioni, Magistretti, Mari (ma, come Ponti, preso sottogamba in quanto considerato fru fru). E seguace del resto di Benedetto Croce. Postmoderno, come un anticipo di Zaha Hadid
o Marc Newson o Ron Arad, tra bombature
e rivettature aeronautiche-automobilistiche (è naturalmente corridore di terra e
d'aria).
Alla base, il surrealismo, con le sagome
dei suoi oggetti antropomorfi e muscolari
(nel suo archivio si troveranno numerose
edizioni della rivista «Minotaure», manifesto del movimento negli anni Venti in Francia). E poi la passione per la montagna - sci,
velocità, analisi del rascard valdostano,
mobili vernacolari, fotografie celebri delle
traiettorie degli sci sulla neve; addirittura
una Introduzione al discesismo (1950),
manuale di sci alpino di 330 pagine che
contiene capitoli intitolati Timidezza e
strafottenza in sci, Motivi di modestia e
Importanza della laminatura metallica
prolungata alle spatole. E poi fotografo, e
reporter (anche, una corrispondenza dall'Expo di Osaka del 1970).
Mai veramente "industrial": sempre dedito piuttosto a un grandioso artigianato
per altissime borghesie eccentriche e internazionali di cui si fa interprete sartoriale ma non subalterno. Nel 1943 un tentativo di normalizzazione, in occasione del concorso Garzanti indetto dalla rivista «Stile» diretta da Ponti, con mobili vagamente Mad Men, e che però mantengono sempre l'anima animalesca insieme al fantasma del barocco che aleggia costantemente e sembra vedere lo Juvarra (ispiratore poi del Regio) tenergli una mano, o un piede, sulla spalla (e in una lettera a Zanuso: io non critico tema la tua poltrona, che è profondamente ma la tua poltrona, che è profondamente
amoroso verso colui che vi si siederà . Lui invece, il desiderio lo insegue. Desiderante come si può esserlo a Torino, come si può esserlo con questo nome, Mollino, come i Gobino del cioccolato: dunque desiderante-industrioso. Sul numero 238 di «Domus» del 1949 Ponti sottolinea come Mollino disegni "accanitamente, come costruttore di macchine fantastiche perfeziona un telescopio o una catapulta, oppure un allevatore seleziona una specie; i
suoi nuovi prodotti si aspettano con la curiosità di vedere quali nuovi esseri bizzarri, nervosi, intelligenti e maniaci egli ha
messo al mondo, quali nuovi incroci egli
abbia creato della sua fantastica razza".
Otto i tributi di Zanotta, in un periodo che
copre ventun anni, dal 1938 al 1959: ci sono
il comodino Carlino, con una gamba sola, lo
specchio Milo, sagomato come una venere,
sospeso con nottolino; la seduta Ardea, a
metà tra un sinuoso tronetto e una poltrona
da formula uno. E la Fenis, una sedia alpina, disegnata nel '59 per il Castello del Valentino, sede del politecnico dove fu ordinario di composizione architettonica. Emblematica e programmatica, a forma allungata e scarna e vagamente inquietante (c'è
tutto, il rifiuto del funzionalismo pur in ammirazione distaccata di Le Corbusier, l'attenzione all'architettura spontanea o vernacolare, e dunque qui alpina). Tutto modernissimo anzi post-moderno (di qui la
fortuna anche e soprattutto postuma, e le
quotazioni fantasmagoriche e il culto elegantissimo di una nicchia che ormai però
tende pericolosamente alla massa).