Recensioni / Venezia salva. “Per una critica dell’economia turistica” di G.-M. Salerno

Henry James, nel suo saggio Canal Grande scriveva nel 1892: «La vita a Venezia, nel vecchio senso lato, si è da tempo conclusa, e l’attuale carattere essenziale della più malinconica delle città risiede semplicemente nell’essere la più splendida delle tombe. Da nessun’altra parte il passato è stato seppellito con tal tenerezza, tal rassegnata tristezza e rimembranza. […] Il vasto mausoleo [la Piazza] ha un tornello all’ingresso e un inserviente con una divisa logora vi fa entrare, come a pagamento, per vedere com’è tutto morto». Da cui risulta non solo l’ennesima versione ottocentesca della splendida città morta, ma anche che il sindaco Brugnaro non si è inventato niente, con il suo fallimentare progetto del 2018, rilanciato nel luglio di quest’anno, di contingentare con i tornelli il flusso turistico povero – gli ospiti degli alberghi e i croceristi ne erano esentati –, alla vigilia della catastrofe del 2019 (acqua alta + Covid). Una città stretta nell’abbraccio mortale di tornelli e paratie del Mose.
Prendiamo la citazione da un importante libro di Giacomo-Maria Salerno sul turismo e sul case study di Venezia, anzi vorremmo dire di un programma militante per salvare la sua città lagunare: Per una critica dell’economia turistica. Venezia tra museificazione e mercificazione (Quodlibet, Macerata 2020). Nella speranza che, come nella tragedia di Simone Weil, la bellezza della città la salvi dal complotto.
Il libro (o meglio la sua introduzione) parte dalla crisi attuale del turismo italiano e veneziano, già palese dall’autunno 2019 e, anzi, gli eventi odierni, servirebbero addirittura a radicalizzarne alcune tesi, come la polemica contro la monocultura turistica troppo facilmente esauribile o sospendibile, magari con il risvolto beffardo di foto di palmipedi nelle acque miracolosamente pulite dei canali. Solo tenendo conto del drammatico punti di approdo possiamo apprezzare il percorso della ricerca, che sin dall’inizio affianca (p. 23) «le due polarità estreme del viaggio contemporaneo: la prima è quella costituita dalle nuove grandi ondate migratorie, che coinvolgono milioni di persone in fuga da guerre e povertà; l’altra è quella dei viaggi di piacere, a cui si dedica una sempre crescente porzione dell’umanità benestante nel tempo libero dal lavoro». Già qui si manifesta la complementarità fra urbanizzazione segnata dall’industria e selezione di città o sue parti destinate alla nostalgia e al lusso del non-moderno, fra la Città generica di Rem Koolhaas (che pure conserva un frammento di storia urbana musealizzata, per es l’East 42nd Street di New York, sul cui segmento West gentrificato si può invece costruire archeologicamente una bella serie tv come The Deuce) e Disneyland o le strutture “veneziane” di Las Vegas.
La razionalità seriale esige un supplemento d’anima, cioè l’esperienza (Erlebnis) dell’autentico e l’incursione immedesimativa a pagamento in quanto si presume stare dietro le quinte, la vita reale non serializzata. La città esperienziale è uno stage dove si devono allestire sia una front region che una back region, configurando un autentico-fasullo, un’iper-realtà. Simulacro o iper-Venezia e va da sé che la migliore realizzazione di questo obiettivo risiede nelle simulazioni di Las Vegas, Disneyland o delle numerose micro-città monumentali cinesi o (a scendere) dei parchi nostrani, adriatici o di Gardaland. Disneyland è evidentemente «la cartina di tornasole per mostrare i meccanismi di produzione del valore nella società spettacolare, un po’ come la fabbrica era il luogo attraverso cui leggere le dinamiche della società fordista nel suo complesso» (p. 68): Venezia, per un verso ha preceduto come stampo, per l’altro si va adeguando al modello Disneyland, luogo chiuso, tornellato e bigliettato, con il vantaggio di aver per elemento di separazione dal “mondo reale” una laguna e non un recinto…
Altro vantaggio veneziano è l’essersi posizionata da secoli in un’”economia delle esperienze” o “politica dei piaceri”, partita come sosta intermedia gratificante (pute onorate, cibi e souvenir) per i pellegrini in Terra Santa, poi tappa obbligata del Grand Tour, quindi la reinvenzione del Carnevale e infine luogo ruskiniano e hoffmannsthaliano dell’anima e della morte: una lezione di “flessibilità” che corrisponde alle trasformazioni del capitalismo: dalla catena di montaggio alla produzione just in time e al lavoro individualizzato a progetto. Il “paese dei balocchi” non solo compensa l’ottusa ferocia del lavoro industriale, ma si è via via modulato secondo le sue variazioni, offrendo l’esperienza aristocratica accanto al gregge in crociera – cioè facendo pagare costi differenziati per gli stessi posti e suggerendo una soglia di reddito, oltre che di tempo impiegato, fra “viaggiatori” e “turisti”. Chi può spendere di più nel soggiorno e magare nutrirsi decentemente potrà così apprezzare l’architettura minore, lo “spirito” della città, cioè quel backstage che è negato al turista occasionale a budget limitato. Questo restava (ante-Covid) il vantaggio di Venezia sul biglietto 24 ore per Disneyland e i suoi alberghi a tema. Discorso, peraltro, estendibile alle città storiche europee, che si sono sottratte allo sprawl di tipo west-coast statunitense adottando un altro modello di estrattivismo, che cioè ha sovrapposto l’esplosione dell’urbano alla precedente organizzazione del territorio. In complesso e su scala planetaria «la patrimonializzazione crescente e la spettacolarizzazione della città storica sono dunque fenomeni strettamente intrecciati con l’affermazione della società urbana e con lo sviluppo edilizio ipertrofico che segnano l’epoca contemporanea: a determinarli è infatti un unico movimento espansivo della società e delle forze produttive. Se in questo movimento .il nucleo urbano diventa oggetto di consumo di alta qualità per stranieri, turisti, abitanti della periferia, il centro sopravvive grazie al suo duplice ruolo di luogo di consumo e di consumo di luogo», come afferma H. Lefebvre, Le droit à la ville, 1968, p. 25.
L’ambigua peculiarità dell’ingresso di Venezia nella modernità sta tutta nella figura del suo “modernizzatore”, il costruttore di Porto Marghera, che non fu solo imprenditore e speculatore in combutta con la Banca Commerciale, ma gerarca fascista, promotore della colonizzazione della Libia (da cui trasse il titolo nobiliare), proprietario di grandi alberghi e fondatore della CIGA), nonché inventore della Biennale. Un’eccellente sintesi delle contraddizioni messe a profitto dell’Italietta prima giolittiana e poi fascista e ovviamente della sua stessa città. Volpi sa sfruttare l’effetto nostalgia prodotto dall’irreversibilità dell’industrializzazione, portata perigliosamente in Laguna stessa, monopolizzando l’accoglienza solvente e rinnovando il mito veneziano con il ricorso alla fabbrica stessa contemporanea del mito: il cinema – compreso il divismo delle “coppe Volpi” per i sex symbol di turno. La sua ultima impresa, come dirigente della SADE, fu la costruzione della letale diga del Vajont. Oggi Venezia (esclusa terraferma e isole) offre 47.849 posti letto contro circa 52.000 residenti, in costante calo. L’offerta complementare (B&B e Airbnb) ha per la prima volta superato quella alberghiera. Con il piccolo inconveniente che oggi sono praticamente vuoti, come se un parassita avesse distrutto una monocultura.
Che fare allora?
G.-M. Salerno si guarda bene dal cadere in un discorso anti-turistico elitario e orientalista (come frignano la maggior parte degli operatori del settore) e difende piuttosto, con i migliori urbanisti, le ragioni della prossimità e della coesione sociale della comunità sul territorio. Si tratta, per un verso, di apporre dei vincoli all’espansione degli spazi destinati all’industria turistica, «di modo da permettere ad altro di sussistere, arrestando la dismissione del patrimonio pubblico, bloccando l’apertura di nuove attività ricettive […] ed estromettendo dalla Laguna il gigantismo navale» (p. 220), per l’altro restaurando il tessuto produttivo della città, frutto della vita e attività comuni sedimentate nel tempo, e dirottandolo dalla vocazione museale e dalla messa a rendita dei nefasti “giacimenti culturali” di demichelisiana memoria (pp. 225-226). Significa riabilitare quella “possanza” collettiva che già Giovanni Botero, a inizio Seicento, aveva individuato nella vita di una città e che permane perfino nelle confuse affabulazioni sull’anima, il retaggio o lo spirito di tanta letteratura su Venezia. Solo che andrebbe presa sul serio, nella sua immateriale materialità, scegliendo fra gli interessi contrastanti della rendita e del comune.