Recensioni / Paul Celan, poesia a Gerusalemme

Non è sempre facile decifrare le poesie di Paul Celan, di questo enigmatico principe della letteratura tedesca del dopoguerra che fa dei versi un’arma per combattere l’oblio e l’indifferenza dei suoi connazionali nei riguardi del tragico passato nazista: a più di trent’anni dalla sua morte il mistero avvolge ancora tanta parte della sua vita e del suo animo. La naturale ritrosia del poeta a parlare degli eventi della sua esistenza, l’impossibilità di accedere alle sue lettere private, ai diari e agli appunti conservati negli archivi di Marbach – che potranno essere pubblicati solo nel lontano 2020 – impediscono di risalire alle occasioni che hanno ispirato le sue liriche, di avere da fonte diretta la «spiegazione» di versi che sembrano scritti in un codice segreto.
Il libro di Ilana Shmueli sul viaggio del poeta in Israele, avvenuto nell’ottobre del 1969 e durato 17 giorni (Di' che Gerusalemme è, Quodlibet, pagg. 190, euro 16) costituisce davvero  un unicum nel suo genere: fa inaspettatamente luce sugli ultimi mesi di vita di Celan, sulle sue ultime composizioni, su aspetti finora sconosciuti della sua complessa personalità. È libro di memorie reso prezioso da brani di lettere e da poesie inedite di Celan spiegate e interpretate suggestivamente dall’autrice. È la stella di un rapporto intenso tra il poeta e l’amica d’infanzia che ha scelto di vivere in Israele e gli fa da guida in un viaggio che lo riporta, lui ebreo, alle radici della sua essenza. È un duplice, sorprendente ritratto di Celan da giovane e poi da cinquantenne, alla soglia della morte,  che esclude quasi completamente i 22 anni passati dal poeta a Parigi.
Ilana ricorda il bello e tenero Paul Antschel – questo il vero nome di Celan – che andava in giro «pensieroso e sognante» per le vie di Cemovcy in Bucovina, la cittadina colta, elegante dove era nato che si vantava di essere la «piccola Vienna», e iniziava a scrivere le prime poesie; che, dopo la deportazione e la morte dei suoi genitori, viveva con gli amici in un piccolo «contromondo incantato» dove si leggeva Nietzsche, Kraus e Rilke, si ascoltava Beethoven, si cantava, si discuteva sul futuro che appariva sempre più minaccioso e inquietante. Nel ’44 Ilana si trasferì con la famiglia in Palestina; rivide Celan, casualmente, nel 1965 e da allora iniziò la corrispondenza epistolare che durò fino alla morte del poeta; maturò il progetto del viaggio in Israele, un viaggio dell’anima compiuto sul filo della disperazione, che non riuscì a risolvere il dramma del suo sentirsi estraneo a ogni luogo, ma gli ispirò versi splendidi, carichi di tensione che prendono ispirazione dalle passeggiate con Ilana per la vecchia Gerusalemme, dalle visite alla tomba di Assalonne e «alle pietre del pianto». Fra i due amici d’infanzia si era creato un linguaggio particolare carico di significati: «Celan non parlava mai delle poesie che mi trascriveva e mi leggeva – parlava con esse. Parole delle poesie divennero codici, vennero accolte nel nostro colloquio», ricorda Ilana che ora vive a Tel Aviv e sta curando l’edizione completa del carteggio con il poeta. Sono lettere «quasi» poesie – la parola «quasi» aveva acquistato per entrambi un valore particolare; «Io credo di sapere qualcosa delle spazialità, delle possibilità del QUASI», scrive Celan all’amica il 13 dicembre ’69. Alla fine di quello stesso anno Ilana lo raggiunse a Parigi, nella sua nuova casa in Avenue Emile Zola: una casa grande, spoglia, dove i due amici chiacchierano, cantano, bevono vino e mangiano ghiottonerie; lui vuole sapere tutto della vita di Ilana in Israele; le parla a lungo della sua malattia nervosa che nel loro lessico diventa la «malattia fra virgolette»; ma le mostra anche l’altro lato, quello che pochi conoscono: la sua vitalità, la sua capacità di godere, il suo umorismo. Fu per lei una guida entusiasta di Parigi; le lesse le sue raccolte diversi, Luce coatta e Parte di neve che non vide mai stampate. Ma poi sopraggiunsero le crisi, i periodi in cui Celan era intrattabile; Ilana lasciò Parigi il 3 febbraio del 1970; continuò a ricevere lettere e versi sino all’ultimo, sino a quel fatale aprile in cui Paul Celan decise di mettere fine alla sua vita.



Da quel Pont Mirabeau
(…)
Dalla pietra
                       del ponte, da cui
egli rimbalzò
nella vita, maturato
da ferite, - dal Pont
Mirabeau,
dove l’Oka insieme non scorre.

Domenica, 12 aprile 1970, Celan mi scrisse la sua ultima lettera:

Io ti scrivo queste righe in gratitudine, Ilana. In gratitudine per il tuo pensare-a-me, il tuo sentire-verso-di-me, il tuo stare-per-me. Tu sai che io ho scritto i versi: “ciò che stava per te / a ognuna delle rive / entra in un altro quadro.” (*32) - Fai che queste righe non siano vere, Ilana.
La settimana scorsa avevo ripreso l’insegnamento, volevo dirti: è stata una buona lezione, Ilana. Quando io ho una buona giornata nella École, questo mi tiene su per un certo tempo, anche in altre situazioni.
Ho riletto alcune delle tue lettere, le rileggerò tutte. La tua parola, che veracità sia nostalgia, mi ha commosso profondamente. Lasciami trascrivere qui queste parole di Kafka. “alzare il mondo nel puro, irrevocabile, vero”. (33) In ottobre uscirà LICHTZWANG. Consentimi di dirti che ho fiducia nel mio editore, Siegfried Unseld.
Tu sai, cosa sono le mie poesie - leggile, questo poi io lo sento.

L’intensità e insieme la non usuale formalità della lettera mi affannavano. Suonava per me come un addio. Partii per Parigi. Gli “amici” già lo cercavano.
Alla fine di aprile 1970 Celan si diede la morte. Il salto “nella vita”, “maturato da ferite, dal Pont Mirabeau”. Come il suo fratello elettivo Ossip Mandelstam scrisse. “Soltanto morire - e poi il salto sul cavallo.” Anche così si potrebbe capire questa morte - “Non si dovrebbe escludere la morte di un artista dalla catena dei suoi risultati creativi, si dovrebbe piuttosto considerarla come l’ultimo, l’anello finale della catena” (Ossip Mandelstam).