«Diritto vivente» è un'espressione usata da Gabriel Tarde per intendere quell'insieme
di abitudini che costituiscono il
«lato interno» - quella che volgarmente si chiama coscienza
- dei processi di socializzazione: l'insieme delle abitudini
per agire all'interno della rete
di rapporti dinamici stabilizzati dalla legge. Sandro Chignola
prende spunto da questo sintagma, che dà il titolo al libro (Diritto vivente. Ravaisson, Tarde, Hauriou, Quodlibet, pp. 232, euro
20), per comporre un testo solo
formalmente costituito da tre
piccole monografie.
In realtà, quest'opera mobilita
- attraverso gli autori - concetti
come abitudine, imitazione,
istituzione, per collocarli sul
piano di un'ontologia integralmente politica che mette in
questione il soggetto com'è stato definito dalla modernità, e le
conseguenti filosofie politiche
e giuridiche che lo hanno
espresso. Si tratta di autori francesi a cavallo fra Otto e Novecento, in Italia poco noti o misconosciuti, che pensano e scrivono in quel frangente temporale che giunge a determinare
il carattere mutevole e in divenire della natura, traendone
conseguenze che tutt'ora risuonano in un autore come Deleuze, presente sottotraccia in tutto il testo.
Pensare, come fa Deleuze, la
giurisprudenza come superficie di scorrimento per una politica degli affetti, delle intensità
e delle convenzioni, significa
comprendere che un essere vivente non è un'isola, un soggetto di diritto chiuso attorno alla
propria volontà: significa cogliere l'ambivalenza della natura umana, cui corrisponde l'istituirsi dei rapporti sociali, e intendere il diritto come risorsa,
istituzione vivente aperta all'uso. Insomma, installare il divenire nel cuore del soggetto, degli organismi sociali, delle istituzioni: con tutto ciò che di imprevedibile questo comporta.
Sì prendano quei comportamenti compiuti «per abitudine», e ci si chieda quale produzione di soggettività ci sia dietro l'apparentemente banale
decisione di accendersi per abitudine un toscano. Ci si predispone, in un gioco di va-e-vieni
fra ripetizione e gesto a venire,
a eseguire un gesto per abitudine, ma non per obbligo; lo schema attivo-passivo mostra i suoi
limiti in questo esercizio di relazione del soggetto col «fuori»
cui si va incontro, ma al tempo
stesso con l'«intemo» nel quale
la ripetizione inclina al «non ancora» di un cambiamento di stato. «Pensare l'abitudine, significa pensare il cambiamento, la
metamorfosi, a partire dalla sequenza periodica che introduce l'elemento della spontaneità
come ritmo del vivente attenuando la rilevanza del processo meccanico di azione e reazione». L'abitudine, insomma, è
un costume, un modo di essere
tanto in relazione agli suoi elementi costitutivi di un soggetto, quanto al suo divenire.
Analoga complessità si dà
nell'imitazione, nella quale l'agire è determinato dalla struttura relazionale: da un «contagio
interpsicologico», un va-et-vient
che scioglie l'insularità delle coscienze individuali. Si prenda il
caso di una rivolta: la folla, nelle situazioni di eccezione in cui
si manifesta come «soggetto
anomalo e bestiale», è un'organizzazione immediata, una generazione spontanea. Fatto è
che non la società è fatta di individui, ma è l'individuo stesso,
«mobile sintesi dell'eterogeneo
su molti livelli che avviluppa e
che contrae, ad essere una società».
E notevole che Tarde intenda le differenti modalità dell'imitazione come sorrette da
una grammatica del contagio
che si manifesta in modo analogo sia sul piano bio-medico,
che su quello delle relazioni sa
ciali (com'era già in Montaigne). La storia, dunque, «non è
un cammino rettilineo, ma un
reseau» fatto di «viluppi di possibilità, che si attuano secondo linee imprevedibili e che modulano altre possibilità».
Le stesse istituzioni sono prese da questo processo di alterazione e di trasformazione, nel
quale l'attualizzazione non
esaurisce mai il multiverso dei
possibili; il diritto sarà dunque
da concepire come «il mezzo
del continuo espandersi dei cicli della socializzazione» in cui
si attua la potenza di relazioni
che essi esprimono. E lo Stato,
lungi dal porsi come personificazione giuridica della Nazione, risulta essere «un regime di
equilibri ordinati nei quali si
dà, nella sua mobilità e riproduzione, l'assetto complessivo
della Nazione». Un assetto che
non esaurisce nella verticalità
la continua relazione fra i due
poli del governo e del governato, e che lascia intendere altri
possibili assetti di equilibrio,
non necessariamente statuali.