Recensioni / C’era una volta New Orleans

In principio fu Jelly Roll Morton? Insomma, il pianista di New Orleans fu davvero l’«Inventore del Jazz»? Se lo chiedono, pressoché da sempre, gli studiosi e gli appassionati della musica afroamericana di tutto il mondo. L’eterno (o quasi) dilemma fu riproposto – e con maggior forza – negli U.S.A. quando, nel 1950, venne dato alle stampe, finalmente, il frutto del lavoro di Alan Lomax, che dodici anni prima aveva incontrato e intervistato, in una lunga serie di sedute accuratamente (per quello che consentivano i mezzi del tempo, s’intende) registrate, Jelly Roll Morton – all’anagrafe Ferdinand Lamothe – protagonista della scena musicale di quella città agli albori del Novecento.
Tra gli amanti italiani del jazz il dubbio si riaccende oggi, grazie all’attesissima pubblicazione nella nostra lingua (Quodlibet, 2019) di quel formidabile e godibilissimo libro: Alan Lomax, Mister Jelly Roll. Vita, fortune e disavventure di Jelly Roll Morton, creolo di New Orleans, «Inventore del Jazz».
Nel 1938, quando i due s’incontrano in un piccolo locale di Washington, Jelly Roll ha circa cinquant’anni (la sua data di nascita non è certa) e i suoi successi appartengono ormai al passato; Lomax ne ha appena ventitré, ma ha alle spalle già qualche anno di notevole esperienza come etnomusicologo. Dal 1933 (e fino al 1942), viaggia su e giù per l’America più profonda assieme a suo padre John Avery, pioniere di quella disciplina, dedicandosi alla ricerca sul campo, che gli consente di scoprire personaggi come Muddy Waters e Woody Guthrie. Lomax non ha mai sentito parlare di Morton e non ama il jazz. Le sue attenzioni sono concentrate sul folklore musicale statunitense e per lui il jazz coincide con le grandi orchestre swing bianche di Benny Goodman e dei fratelli Dorsey o con quelle nere di Duke Ellington e Cab Calloway sulle cui note, nelle sale da ballo o, grazie alla radio, nelle case, milioni di persone ballano. Lomax è un convinto socialista e per lui, come ricorda Stefano Zenni nell’introduzione all’edizione italiana del libro “tutto questo puzzava di industria capitalistica, che sforna orchestre tutte uguali promosse attraverso le grandi corporazioni radiofoniche”. Per il ricercatore, a cui sta a cuore solamente la genuina arte popolare, continua Zenni, “il folk musicale americano, quello dei contadini, dei montanari, dei vaccari, non trovava spazio e rischiava di scomparire davanti alle forze schiaccianti della musica commerciale e dello Swing, ovvero del jazz”. Ed è proprio di folklore che il giovane Lomax intende parlare nel corso dell’intervista a Morton. Ma le cose vanno diversamente. Fin dalle prime battute, il «vecchio» pianista della Louisiana conduce i giochi, inizia a raccontare la propria vita, la propria storia, spalancando davanti agli occhi di Alan Lomax una finestra su un mondo che gli è ancora sconosciuto, quello delle origini del jazz e di tutto l’ambiente in cui era nato e di cui si era nutrito. Ne nascerà un testo, che consiglio a tutti i lettori di avere presto tra le proprie mani, che è, assieme, un trattato di sociologia, un documento storico, un affresco corale sul mondo del jazz, ma, anche, un romanzo. Sì, un romanzo (per di più illustrato con i gustosi disegni di David Stone Martin), raccontato in prima persona dal suo protagonista. Lomax, infatti, costruisce l’opera come una lunga narrazione intercalata dai dialoghi di Morton con i propri interlocutori. A distanza di tanti anni dalla pubblicazione della prima edizione americana, e alla luce di nuove biografie del pianista e compositore creolo, sono venute a galla tante imprecisioni nel lavoro di Lomax, che non si limitò a trascrivere quanto aveva inciso sui nastri, ma l’«arricchì», spesso, di un punto di vista personale, teso a voler dimostrare alcune sue teorie preconcette e che distorse in parte il reale carattere di Jelly Roll Morton, che dal libro emerge come un esuberante millantatore, narcisista e presuntuoso. L’edizione italiana non fa mistero di tutto ciò. Stefano Zenni, nell’introduzione, lo sottolinea adeguatamente. E Mario Sessa, curatore dell’opera per Quodlibet, fa altrettanto in una nota non meno interessante. Ma, ci tiene a rimarcarlo, se “le parole di Jelly Roll Morton sono state ampiamente manipolate da Lomax, causando anche malintesi e incomprensioni fra i successivi studiosi, è però vero che l’abilità narrativa del suo biografo ha molto contribuito alla popolarità di questo volume e del suo protagonista”. Un volume dal quale nascerà – come fosse una sorta di archetipo – la successiva mole di nuove scoperte da parte del suo autore e di intere generazioni di ricercatori.

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