L’esperienza di Paul Celan è alta-mente simbolica del dolore e del-la disperazione, dell’impossibilità ad accettare la vita, vissuta come senso di colpa, dopo la terribile esperienza dell’O-locausto che lo ha strappato agli affetti più cari. Celan diventa, con la sua poesia così precisa e acuminata, un emblema della tra-gica discussione interiore che ha colpito "i sopravvissuti". «Per Paul, il mondo di sogno della madre era crollato. Non parlava mai della deportazione dei suoi genitori, però il dolore e la tormentosa colpa di chi è ri-masto
in vita non lo abbandonarono mai, sono sempre presenti nelle sue poesie, ma di rado in modo esplicito». Così spiega l’avventura uma-na di Celan, Ilana Shmueli, u-na sua amica fin dai tempi del-la giovinezza, emigrata in Pa-lestina con i genitori nel 1944, in piena guerra mondiale, che ritrova il poeta amico, più di vent’anni dopo, nel 1969, quando Celan decide di com-piere quello che sarà il suo ul-timo viaggio, quello cruciale,
da sempre rimandato. Celan decide di visitare Geru-salemme, nella speranza di ri-trovare
una patria dove sia possibile vivere senza sentire addosso il peso dell’esilio, quello che devasta in ogni al-tro luogo. Non è un viaggio lungo, ma assolutamente si-gnificativo: «Celan lasciò I-sraele, gravato di tutto il peso del suo destino più personale, gravato da amore e preoccupazione per il paese che non poteva divenire il suo. E tut-tavia il suo viaggio in Israele fu qualcosa come un compimento». Non è possibile chiamare "pellegrinaggio" questo viaggio: probabilmente per Celan si tratta di una necessità per sfuggire alla solitudine più profonda, tanto che quando tiene una con-ferenza a Tel Aviv, presso l’Associazione e-braica
degli scrittori, esordisce dicendo: «Sono venuto a voi in Israele, perché ne a-vevo bisogno». In tempi che il poeta defi-nisce contrassegnati da "massificazione" e "estraniazione di sé", è confortato dal senso di solidarietà che trova in questa ter-ra e sottolinea: «E io trovo qui in questo paesaggio esteriore e interiore molto delle spinte alla verità, della autoevidenza e u-nicità cosmopolita della grande poesia». Il suo viaggio a Gerusalemme, pur se gra-vato
da tutto il peso del suo destino indivi-duale e da tutto il peso del destino ebrai-co, è per Celan un modo per tracciare «la strada verso la ricerca della realtà» e Ilana Shmueli lo accompagna in questa città ca-rica di storia e di mito, capitale da poco riu-nificata del giovane stato d’Israele. Celan scrive alcune straordinarie poesie, una vol-ta ritornato a Parigi, in cui rivivono le im-pressioni e il senso del viaggio, poesie le-gate a immagini precise quali i fichi e i pi-nastri, i ragli d’asino davanti alla tomba di Assalonne, il muro del pianto e il suo si-gnificato simbolico, la luce serale sulla città con la cupola d’oro della moschea di O-mar,
le porte di Gerusalemme. In una let-tera scrive: «Gerusalemme mi ha rinfran-cato e rafforzato. Parigi mi opprime, mi sca-va. Parigi, per le cui strade e case io ho tra-scinato così tanto peso di delirio, di realtà, tutti questi anni». Ora il senso di quel viaggio, accompagna-to
dalle poesie che ne sono scaturite, vie-ne raccontato proprio da Ilana Shmueli, con discrezione e fedeltà, senza sovrap-porsi alla volontà dell’amico e del poeta che riteneva inutile aggiungere commen-ti alle sue poesie. La Shmueli raccoglie in una lingua tersa e lucidissima i ricordi di quel viaggio e di quel breve incontro, che precede la decisione di Celan di togliersi la vita. Non scrive un saggio sulla poesia di Ce-lan, ma la accompagna, svelando i parti-colari legati al viaggio-incontro. Del resto sottolinea: «Celan stesso si rifiutava fer-mamente di parlare del suo poetare, sape-va e sottolineava sempre di nuovo che per lui vita e poesia sono una cosa sola e non hanno bisogno di alcuna spiegazione». E al
proposito cita un’affermazione del poeta: «Io ho scritto poesie, cosa posso altro dire». È un libro intenso e prezioso questo, che raccoglie una vasta produzione poetica di Celan, ma ci aiuta a capire anche il suo rap-porto con l’ebraismo, nutrito da una profonda nostalgia: «Presagiva un ebrai-smo che include la storia e va oltre di essa. L’ebraismo divenne per lui una sopravvi-venza infinita - e quindi parte dell’eternità».
Ilana Shmueli Di’ che Gerusalemme è, a cura di Jutta Leskien e Michele Ranchetti
Quodlibet. Pagine 186. Euro 16,00
Un grande del ’900 Pau Celan (nella foto) è uno dei grandi poeti tedeschi del Novecento, nato nel 1920 in Bucovina e morto suicida a Parigi, nel 1970. Durante la seconda guerra mondiale,
alterna soggiorni in Russia e nella città natale Czernowitz. Internato in un lager, riesce a
fuggire, mentre trovano la morte i suoi genitori ebrei. Nel 1945 si stabilisce a Bucarest, dove
pubblica le sue prime poesie. Poi si trasferisce a Vienna e quindi a Parigi. La sua formazione
avviene attraverso lo studio e la traduzione di Rimbaud, Valery e Ungaretti, oltre ad un approfondimento di Holderlin e di Rilke. Pubblica la prima raccolta nel 1948 e continua la sua produzione poetica, riconosciuta anche da prestigiosi premi, fino alle ultime raccolte a intuire la parola come puro pensiero.
Una foto di Gerusalemme nel 1967, scattata da Leonard Freed. Sotto a destra, un’immagine del poeta Paul Celan, nato nel 1920, morto nel 1970. Il viaggio a Gerusalemme nel
1969 fu per lui l’ultimo viaggio
Tu sii come tu, sempre
Alzati, Gerusalemme adesso
levati.
Anche chi ha tagliato il legame verso
di te
adesso sarà
illuminato
l’ha stretto di nuovo, nella memoria,
pezzi di fango ingoiavo, io, nella torre,
lingua, oscuro-lesena
sorgi
illumina.
Paul Celan