Negli anni ho sviluppato
un'insana
passione per gli interni
delle case dei
personaggi famosi
in collegamento televisivo.
Ricordo ancora quando uno
schivo e celebrato cantautore,
monumento vivente allo sposalizio
alchemico tra poesia e canzonetta,
si collegò da un salotto
ingombro di pesantissimi mobili
in uno stile a metà tra il «barocco
brianzolo» (copyright di
Tommaso Labranca) e il postmoderno
transilvano. Insana
passione, questa di occhieggiare
dietro le spalle, che i social
network e il virus hanno fomentato:
la pandemia moltiplicando
le videochiamate, le call, i collegamenti
casalinghi; i social
inondandoci di foto di politici
catturati (ma in realtà studiatamente
messi in posa) nel loro
quotidiano casalingo.
Alcuni tentano goffamente di
nasconderlo: come Antonio Tajani
che si sforza di cambiare location
a ogni dichiarazione o foto,
ma che si sposti in giardino,
cerchi un angolo ben illuminato
del tinello, o peschi l'inquadratura
perfetta in corridoio, è
sempre palesemente a casa sua.
Altri ci hanno costruito se non
le loro fortune, di certo le loro
strategie di comunicazione
(ma c'è differenza?): tipo il Renzi
che twittava il pacchetto di
Nutella Biscuits appena comprato
quando ancora andavano
a ruba (che biscotti fossero e
come all'epoca avessero scatenato
una specie di mania è materia
tanto futile quanto inutile
da ricordare ora).
II talento di Salvini
Il campione assoluto di questa
comunicazione però, colui che
ne è diventato paradigma, caso
di studio (e caso clinico, dato
che viene da temere per le sue
coronarie) è ovviamente Matteo
Salvini. Siamo invasi (anche
chi non frequenta i social, dal
momento che vengono riprese
e amplificate dai giornali e dagli
altri mezzi di comunicazione)
da immagini di Salvini mentre
addenta una pizza, lecca un
gelato, si prepara una carbonara,
morde una frittella, un hamburger,
un arancino in una cucina
con sullo sfondo un orologio
a cucù, un calendario del Milan,
un santino di padre Pio.
La sera della vittoria della Lega
alle elezioni europee del 2019,
Salvini twittò una foto che aveva
sullo sfondo una libreria ricolma
di oggetti, così tanti e arruffati
da far sorgere il sospetto
che fossero stati disposti secondo
un preciso ordine e che ognuno
di essi mandasse un qualche
messaggio a un settore o l'altro
dei suoi elettori: un santino di
Baresi e uno di Putin, un berretto
Make America Great Again e
il Tapiro di Striscia, il saggio La
crociata di Himmler, che narra di
una spedizione dei nazisti in Tibet
alla ricerca della «razza pura», e un libro di Lilli Gruber,
l'ampolla del "dio Po" e un cappello
dei Carabinieri.
Le gozzaniane «buone cose di
pessimo gusto» (e altre decisamente
meno buone) trasformate
in armamentario della propaganda,
in vettori dell'ideologia.
Ma non è sempre stato così?
Il salotto barocco brianzolo, il
pacchetto di biscotti, la carbonara
e la libreria sovranista
hanno in comune una cosa: sono
tutte manifestazioni del Kitsch.
Il cattivo gusto
Cosa sia il Kitsch è difficile da dire.
O meglio, è come il tempo
per sant'Agostino: sappiamo
cos'è solo quando non ci chiedono
di definirlo (indizio che forse
il Kitsch è nell'occhio di chi
guarda?).
Troppo facile cavarsela così,
troppo importante il Kitsch per
svicolare dalla faccenda. Prende
di petto la questione un volume
appena pubblicato da Quodlibet
che definire prezioso è
quasi fargli un torto: Kitsch, a cura
di Marco Belpoliti e Gianfranco
Marrone, è un'autentica cassa
del tesoro di idee, storie, concetti,
un'opera monumentale
(sono più di 600 pagine) e utilissima
che fornisce l'attrezzatura
per fare i conti con questa categoria
fondamentale dell'estetica,
della politica, della vita associata.
il volume, quarantunesima
uscita della gloriosa rivista/libro
Riga, raccoglie e commenta
itesti fondamentali che nel corso
del Novecento (e un po' prima
e un po' dopo) hanno pensato
"il cattivo gusto".
Parlare dell'identità
Già l'elenco dei nomi fa capire
l'errore che si commetterebbe a
ricacciare il Kitsch nel trovarobato
delle idee di secondo piano:
da Robert Walser a Milena Jesenká
(«l'amica di Kafka»), da Benjamin
a Adorno, da Nabokov a
Broch, da Macdonald (il teorico
del midcult) a Sontag, a Dorfles,
Kundera, Calvino, Arbasino...
passando ovviamente per il fondamentale
Eco, tutti i grandi filosofi,
studiosi di estetica, scrittori
e artisti del
secolo scorso ne
hanno scritto.
Ogni testo è commentato
da uno
studioso che lo
presenta e l'aggiorna.
Una ventina di
interviste a figure
della cultura
contemporanea
sul Kitsch e la sua
attualità conclude
il ricco volume.
Se seicento pagine vi sembrano
tante considerate che
non si smetterebbe mai di parlare
del Kitsch, perché parlarne
vuol dire parlare del gusto e
quindi dell'identità, della società,
della vita. E di che altro devi
parlare?
Difficile definire il Kitsch, dicevo,
ma dopo la lettura è possibile
mettere insieme una costellazione
di concetti, luoghi comuni,
giudizi che disegna un'idea
di Kitsch: «Arte degenerata, massificata,
inautentica e ripetitiva;
pseudo-arte a buon mercato;
simulazione della bellezza,
esaltazione del sentimentalismo
e del dilettantismo; arte a
servizio dei regimi politici totalitari
e della loro propaganda;
contraffazione e simulazione;
riduzione dell'opera a souvenir
turistico e a gadget; diffusione
di un gusto medio e massificato;
cattivo gusto o totale mancanza
di gusto».
Quando poi Adorno
negli anni
Trenta parla di
«estetizzazione
del mondo della
vita» sembra dire
filosoficamente
quello che Pasolini
trent'anni dopo
(in un'intervista
a Arbasino) riformulerà
molto
più terra terra, definendo
l'Italia
«un tugurio in
cui i proprietari sono riusciti a
comprarsi la televisione».
Tra Aldo Moro e il Papeete
Ecco, messe così poche cose sembrerebbero
meno attuali, anzi
meno utili alla vita del Kitsch:
sembra una vestigia di un tempo
passato, di una civiltà vicina
nel tempo ma lontanissima nella
storia, in cui c'erano delle gerarchie,
c'era una cultura di
massa (deprecata da Adorno e
Pasolini) con i suoi media di
massa, i giornali, la radio, la televisione
e non una galassia molecolare
in cui ognuno è emittente
e ricevente allo stesso tempo;
c'era la borghesia, che per la
sua intrinseca insicurezza doveva
elevare i propri consumi culturali
e condannare alla subalternità
quelli delle classi inferiori,
e non "il popolo contro la
casta"; c'erano dei mediatori,
dalla critica letteraria ai partiti
di massa, non dei leader che
twittano a torso nudo.
Infatti cosa c'è di più Kitsch della
foto di Moro in spiaggia con
un completo scuro che ha invaso
le bacheche di Facebook di
chi la postava contrapponendola
(«Ah, i politici di una volta!»)
alle performance del Papeete?
Quale miglior esempio di estetizzazione
del passato ad uso
sentimentale?
Quindi, ecco un'ipotesi: Kitsch
come residuo del secolo scorso,
scheggia inattuale di un'epoca
passata. Può essere.
Del resto le posizioni di Adorno
e Pasolini fatte rivivere oggi sarebbero
bollate probabilmente
come cringe, ovvero il Kitsch al
tempo di Internet.
Cringe nel gergo della rete è
qualcosa di imbarazzante, un
gesto che lascia intuire l'ignoranza
dei codici di comportamento
da parte di chi lo fa, un
eccesso maldestro di rigidità.
Trovo molto cringe, personalmente,
una mia bolla di contatti
(letterati, ça va sans dire) che
schifa come venduto e commerciale
qualsiasi cosa minimamente
al di là del poeta autopubblicato
odi un sempre uguale
e striminzito canone serissimo
di "alta letteratura", marchiando
tutto il resto come cascame
Kitsch prodotto dal mercato
editoriale.
L'insostenibile leggerezza
Non sarà allora che il Kitsch,
lungi dall'essere un ferrovecchio
novecentesco, è uno strumento
potentissimo per leggere
il presente? Un qualcosa che
non vediamo perché è il mare
in cui nuotiamo.
Milan Kundera nell'insostenibile
leggerezza dell'essere (tra l'altro
un romanzo che quando fu
pubblicato da Adelphi nel 1984
ebbe uno straordinario successo
di pubblico, diventando autentico
"libro di culto" e reso tormentone
da Roberto D'Agostino
nella trasmissione Quelli
della notte di Arbore: quale destino
più Kitsch?) («Hai mai letto
Kundera?» canta la parodia
di Battiato fatta da Stefano Bollani
in un irresistibile e storico
sketch), Kundera, dicevo, scriveva
che «Kitsch è l'eliminazione
della merda dalla vita».
La risposta di Calvino
Calvino gli diede una formidabile
risposta dal punto di vista
degli stitici, ma non divaghiamo
(leggetela nel libro di Belpoliti
e Marrone!). Ecco, cosa sono i
nostri feed Instagram se non
delle interminabili carrellate
sulla vita senza la merda? Delle
messe in posa dell'esistenza
senza il fallimento, il dolore, la
noia, il dubbio, la perdita?
In un certo senso l'ottundente
ripetitività della comunicazione
social rende Kitsch anche le
tragedie perché le inquadra
sempre dentro la stessa cornice,
la medesima cornice che
usiamo per raccontare un nuovo
paio di scarpe o l'ultimo libro
letto. E tutto diventa già visto,
già detto, già accaduto.
C'è del Kitsch anche nella logica
dell'influencer che non ha bisogno
delle riviste di moda per legittimarsi,
allora, e in quella del
leader mediatico-politico, che
prospera anche senza un partito.
Anzi sono proprio la stessa.
Quella di chi ha capito che solo
estetizzando se stesso, il suo corpo,
i suoi consumi, le sue mangiate
può continuare a esistere.