Nelle pagine conclusive
di Giuda, Shemuel abbandona Gerusalemme e la disperazione
che incombeva su tutto, senza avere affatto
chiaro il proprio futuro. Eppure, nota
Amos Oz, egli avverte allora in sé
una calda allegria, «come se fosse finalmente libero». Fermatosi
in un villaggio sconosciuto,
smessa ogni fretta, sta - e in quel
sostare, recita la chiusa del romanzo, «domandò a se stesso».
Il libro di Giancarlo Gaeta Il
tempo della fine. Prossimità e distanza dalla figura di Gesù (Quodlibet, pp.128, €14,00) esige un lettore che, come Shemuel, sia stato
capace di accogliere l'antico invito a fermarsi e darsi tempo - il
tempo di interrogare sé stesso e
quanti con più rigore e umiltà
hanno prestato attenzione al
proprio vivere. Quale che sia l'esito di questa ricerca assidua ed
esigente della verità, essa, sostiene Simone Weil, conferirà a chi
la pratica una singolare bellezza, che trattiene e spaventa a un
tempo chiunque gli si avvicini.
Il libro di Gaeta tratta appunto
di questa bellezza riflettendo su Gesù, certo uno degli uomini a un
tempo più dolci e inquietanti della storia. La sua missione infatti, ci
si dice, ha un «significato di conflitto, di contrasto violento, in definitiva di divisione tale da attraversare tutti gli assetti sociali e financo le coscienze meglio disposte»; propone una lotta «mortale»
contro il Satana e le potenze mondane, poste sotto il suo incontrastato dominio.
Il detto che recita: Lascia i morti
seppellire i loro morti, nella sua umana e mosaica empietà, esige appunto, tramite «una decisione per
la vita e contro la morte», l'esodo
dalla mondanità considerata ormai, come «creazione sociale»,
l'opposto del Regno di Dio.
Dunque, a ragione Gaeta insiste sui versetti che attestano l'istintivo disagio e rigetto che Gesù
provoca nei familiari e nei vigili
custodi della tradizione che incontra: è fuori di sé, dicono di lui i primi; è un indemoniato, dicono i secondi. L'autorità che rivendica ed
esercita risulta inquietante e sovversiva, lo pone trai pazzi, i marginali. Chi sano di mente e timorato
di Dio oserebbe porre al suo interlocutore la richiesta di una resa incondizionata: o con me o contro
di me? Resta l'altro volto di Gesù,
tuttavia, quello del «Gesù dolcissimo», che passa facendo a tutti del
bene e tutti benedicendo. Sì, consente Gaeta, ma aggiunge: beneficando e benedicendo quanti versano nella sventura, invisibili a una
società che riconosce solo il prestigio della forza; a chi, posto ai margini della storia, chiede solo che
non gli sia fatto del male - cosa
che non è di questo mondo.
Gaeta lavora sui testi avendo
chiara consapevolezza della loro
stratificazione, frutto di memoria
e interpretazione di quanto Gesù
ha fatto e detto nelle diverse situazioni in cui i discepoli si trovavano a vivere. E proprio l'esame attento di queste successive letture
a interessarlo, perciò che, colte come tali, consentono di dire di Gesù e dei «tradimenti fedeli» (o meno) che di lui attestano, i primi dei
molti che i suoi fedeli poi compiranno. Forse qui sta il punto più
delicato del suo lavoro, che sembra corrispondere nei giudizi su
quei «tradimenti» a un silenzio sul
rapporto di Gesù, del Gesù «storico», con il Padre e di questi con i
piccoli del nostro mondo.
Comunque, quella «rottura»
che egli inaugura, «instauratrice»
non di un nuovo ordine mondano, ma di un nuovo modo d'essere
nella storia, direbbe Certeau, si accompagna alla difficoltà per
chiunque la condivida di tenere insieme disincantato giudizio e viscere di misericordia, vivendo nel
mondo e per il mondo senza essere dei mondo - un puzzle irrisolvibile quanto fascinoso, dinanzi al
quale forse merita arrestarsi e domandare a se stessi che ne sia, che
ne possa venire, o da cui forse è
giudizioso allontanarsi, scuotendo il capo, come dalla proposta di
un pazzo o indemoniato.