Ambiguo e maledetto,
ma altrettanto indubbio, il successo
di Carl Schmitt ne
ha oscurato la complessità. Concetti come quelli di dittatura, di potere costituente, di stato d'eccezione, fino alla
celeberrima opposizione amico-nemico, sono diventati stabile patrimonio del lessico politico e filosofico; il successo di
queste categorie, tuttavia, è
andato di pari passo con una
sclerotizzazione unilaterale
del pensiero che le ha prodotte. Tutte infatti, vengono spesso fatte collassare sul momento della decisione, posto a origine e fondamento dell'ordine giuridico: momento centrale nell'impianto del giurista tedesco, ma che sarebbe bene
non assumere a paradigma ermeneutico onnicomprensivo.
A ristabilire un'immagine
di Schmitt meno unilaterale -
ma non per questo meno radicale - contribuisce la recente
riedizione della conferenza
La situazione della scienza
giuridica europea, Quodlibet, pp. 128 ¬ 14,00), in una
nuova traduzione (talvolta
fin troppo precisa nel restituire il periodare tedesco) e con
la meticolosa curatela di Andrea Salvatore, che a un ricco
apparato di note affianca
un'ampia postfazione. Già
nella scelta del titolo, che preferisce il termine «situazione» al più generico «condizione» della precedente traduzione, il curatore sottolinea quella passione per la contingenza che contraddistingue il percorso intellettuale di Schmitt
ben più di ogni forzata unitarietà - anche laddove quest'ultima venga estorta ex-post
dall'autore stesso.
Pubblicato nel 1950
Tra queste pagine convergono
infatti, come in una sorta di mise en abyme, le linee principali
del pensiero di Schmitt e del
suo sviluppo sussultorio e alterno, che riflette - d'altronde
-gli sconvolgimenti di un'epoca: l'elaborazione e la prima
pubblicazione dello scritto sono datate, infatti e non casualmente, in fasi diverse di quella che è una svolta radicale,
tanto per la vita di Schmitt
quanto per l'Europa. Il testo
pubblicato nel 1950 riproduce - infedelmente, come chiarisce il curatore - una serie di
conferenze tenute da Schmitt
negli anni 1943-1944, fra la catastrofe bellica tedesca, l'interdizione all'insegnamento
e infine la ratifica dei primi accordi per la creazione della futura Unione Europea. Se non
«anni della decisione», certamente anni decisivi.
È in questo contesto che
Schmitt mostra di voler compiere una vera e propria svolta
teorica rispetto ad alcune posizioni precedenti, che talvolta
sembrano identificare l'insieme del suo pensiero: una su
tutte, il sorprendente ridimensionamento di quel «situazionismo decisionistico» che innervava i testi degli anni Venti
e Trenta. Se in Teologia politica
Schmitt scriveva che «l'autorità» non ha «bisogno di diritto
per creare diritto», e se in un testo degli anni Trenta giudici e
giuristi venivano definiti niente più che «collaboratori della
volontà e dei piani del Führer»,
nella conferenza del 1950 è invece inaspettatamente proprio la «scienza giuridica» nel
suo radicamento storico a venire elevata, sulla scorta di Savigny, ad «autentica fonte del diritto», mentre la corporazione
(Stand) dei giuristi assurge a
«comunità scientifica dei custodi del diritto».
Assumere come condizione
di possibilità per un ordinamento giuridico il suo radicamento storico e, soprattutto,
quella peculiare «riflessività»
interna propria di ogni scienza, implica la revoca di quel
primato decisionistico della
volontà ordinatrice che, da
scaturigine di ogni legittimità effettuale, sembra venir
qui accostata a quel «legislatore motorizzato» in cui si rintraccia l'origine della crisi.
Siamo di fronte, anche in questo caso come in quello del
mago di Messkirch, Heidegger, a una «svolta» (Kehre)?
Non sembra questa l'ipotesi
del curatore, che nella significativa postfazione ricostruisce l'itinerario del pensiero di
Schmitt, sostenendo come la
continuità nel mutamento vada piuttosto rintracciata proprio in quella adesione alla
contingenza, che rende la sua
riflessione il vivente specchio
del proprio tempo.
Un'ombra sul presente
Certo, in questa nuova posizione teorica di Schmitt non si
può non vedere anche una certa dose di opportunismo; ma
oltre a gettare una nuova, ambigua luce sull'autore, essa
proietta un'ombra su questo
nostro presente: perché se è
nell'unità della scienza giuridica che Schmitt vede adesso
l'unica garanzia adeguata per
«un impero europeo», è nella
sua «motorizzazione» - ossia
nell'automatizzazione tecnocratica - che viene individuata una sua pericolosa distorsione. E davanti a questa diagnosi non possiamo non sentirci interrogati.
Mai come oggi, infatti, pare
che nel processo di unificazione europeo alla politica e alla
democrazia si contrapponga burocratica divenuta autorefeproprio lo schermo di un im- renziale. Le intuizioni di Schpianto giuridico sempre più miti in questo testo suonano
automatizzato e di una classe
oggi come un enigmatico avvertimento, che pare quasi dimostrare la carsica e inaspettata ascendenza del suo pensiero anche nel dopoguerra.