Recensioni / Paolo Grossi, Il mondo delle terre collettive. Itinerari giuridici tra ieri e domani

Raramente un libro riesce ad offrire insieme una testimonianza di se´ e del suo autore in un modo così schietto e colloquiale, come questo prezioso volumetto fa, nella sua sobria ed elegante veste editoriale di una raffinata collana scientifica. Ci si sarebbe potuto aspettare un saggio di sintesi, di alto profilo, a compendio di un’esperienza scientifica tra le più significative in questo campo e nell’ambito della storiografia giuridica del nostro tempo, e invece il libro offre molto di più, con il suo duplice ed attraente carattere di lezione (un’autentica lezione di metodo e d’impegno) e di sincerissima confessione rivolta al lettore giurista cos`ì come al lettore che giurista non è. All’uno e all’altro Paolo Grossi offre parole di assoluto nitore scientifico e letterario, sia che si tratti di chiarire la nozione di «uso civico» (p. 15), sia che sorga l’obbligo di spiegare quale differenza passi tra l’interprete, «mediatore tra legge vecchia e fatti sociali nuovi», e un passivo esegeta di volontà altrui (pp. 25-26), o di illustrare la natura inventiva della scienza giuridica come lettura del sostrato valoriale della società, o di ricordare come abbiano operato e operino le Preleggi (p. 26), o di chiarire la fondamentale distinzione tra domini collettivi e «beni comuni» (p. 97) o di tratteggiare le grandi personalità di maestri come Santi Romano (p. 28), Francesco Calasso (p. 31), Luigi Men-goni (p. 78), fino all’opportuna nota relativa a Cattaneo e al titolo del celebre saggio (p. 46) dal quale Grossi stesso prese le mosse col libro del 1977.
Di quel libro, Un altro modo di possedere, è illustrata la genesi, in prima persona, con una narrazione spoglia di qualsiasi orpello, con-dotta con una schiettezza e una confidenza che ricorda un’altra con-versazione di Grossi (cfr. M. MECCARELLI, S. SOLIMANO, A colloquio con Paolo Grossi, in «Forum historiae juris», marzo 2007). In alcune bellissime pagine — pagine autobiografiche senza autobiografismo — Grossi riconsidera il proprio itinerario culturale e scientifico fin dal momento del suo «noviziato giuridico» (e non sembri abusata questa espressione, perché c’è qualcosa di intimamente e profondamente religioso in questa lezione / confessione), mostrando una varietà di percorsi, alcuni iniziati e presto interrotti, altri proseguiti più a lungo e con apporti non insignificanti, fino al conseguimento di risultati che hanno aperto nuove prospettive non solo nella materia degli assetti fondiari collettivi, ma in una nuova coscienza del giuridico. Dalla collaborazione, iniziata nel 1955, con Giangastone Bolla e dalla consuetudine con i suoi lavori non emergevano, scrive Grossi, «semplici curiosità storico-giuridiche», ma « una grande e generale soluzione al problema dei rapporti fra soggetto umano e rerum natura, una scelta di fondo dal carattere essenzialmente antropologico» (p. 45). La pagina è bella e deve essere citata per intero (p. 63):

Raccogliamo i semi che abbiamo gettato. La modernità borghese: un monismo proprietario invasivo e l’ostilità verso il ‘collettivo’; i salvataggi culturali per il mio noviziato giuridico; in particolare, il salvataggio ‘agraristico’; la familiarità con Bolla e l’approccio diretto alla realtà degli assetti fondiari collettivi; l’incontro ideale con il pluralismo culturale di Carlo Cattaneo e con la disputa tardo-ottocentesca sulla proprietà collettiva quale dimensione dell’uomo originario. Ci sono tutte le premesse per cogliere puntualmente la genesi delle ricerche, che mi portarono ad essere io stesso alla riscoperta di ‘un altro modo di possedere’ e mi indussero a redigere un libro che, al di là delle minuziose indagini storico-giuridiche, voleva fungere da stimolo a riflessioni ulteriori, a problemi coinvolgenti — con il passato — anche il presente e il futuro. Mi facevo, finalmente, portatore di quella coscienza critica del giurista di diritto positivo, che io ho sempre sostenuto essere una funzione primaria dello storico del diritto.

Nell’orizzonte culturale e scientifico che spesso Grossi ha descritto come quello di un lento riacquisto della complessità del pensiero giuridico del Novecento, si svolgono le tappe di un «itinerario concreto di ricerca»: il volume Locatio ad longum tempus. Locazione e rapporti reali di godimento nella problematica del diritto comune (1963), studio di un contratto tipicamente medievale « in cui la dimensione personale e quella reale venivano a congiungersi, con il risultato romanisticamente aberrante di una locazione che, in grazia del suo distendersi in una lunga durata, arrivava a generare nel conduttore una situazione reale, addirittura un < i > dominium utile» (p. 64); quindi la relazione del 1965 sui contratti agrari del Medioevo, tenuta a Spoleto «su invito espresso di Francesco Calass»; la prolusione al corso di Diritto comune tenuta a Firenze nel 1967 e dedicata a Naturalismo e formalismo nella sistematica medievale delle situazioni reali; la monografia del 1968 su Le situazioni reali nell’esperienza giuridica medievale, nella quale era affrontato il problema del dominium e degli iura in re aliena nel tentativo di cogliere « le grandi e decisive scelte dei medievali, scelte di carattere innanzi tutto antropologico» (p. 64); le indagini sulla proprietà moderna, che «si presentava toto coelo diversa dalle diagnosi e soluzioni medievali», e diversa «proprio per le fondazioni antropologiche di sostegno che erano, più che diverse, di segno oppost » (pp. 65-66). Nel 1972, nel primo volume dei «Quaderni fiorentini», apparve infatti uno dei saggi meritamente più noti della produzione storiografica di Grossi, ‘‘Usus facti’’. La nozione di proprietà nella inaugurazione dell’età nuova, intorno alla genesi di una nozione radicalmente nuova di proprietà nelle dispute francescane sulla povertà volontaria. Il tema del dominium, «reso complesso dall’incontro-scontro ad esso sotteso tra mondo dei soggetti e mondo delle cose», si ravvivava così «in forza delle opposte soluzioni dei ‘medievali’ e dei ‘moderni’» (p. 66).
Nacque in questo quadro una organica indagine sulla sistemazione post-unitaria della proprietà , intesa a scandagliare, come scrive Grossi, «gli angoli più riposti della scienza giuridica italiana nella seconda metà dell’Ottocento» (pp. 67-68). Da quelle e da successive indagini si generò il libro che nel 1977 apparve nella collana dei «Quaderni fiorentini», dedicato a Giangastone Bolla, col suo titolo cattaneano e con il chiaro sotto-titolo L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica unitaria, ad indicare «l’intento di disegnare una visione ampia e onnicomprensiva di un dibattito avvenuto a più livelli», perche´ europeo « ma con specifici percorsi italiani», perch´e dottrinale ma incisivo anche a livello legislativo, perche´ coinvolgente «teorici e pratici, filosofi e giuristi, economisti come agronomi» (p. 69). E se quel dibattito si chiude presto, rintuzzato in un passato da dimenticare «e che nemmeno la rivoluzione culturale rappresentata dalla nostra Costituzione repubblicana riesce pienamente a riattivare» (p. 69), il volume del 1977 non solo ha ampio successo, ma raggiunge lo scopo culturalmente vitale di «attizzare il fuoco che covava sotto la cenere, latente ma non spento» (p. 71). Scrive Grossi (p. 70):

Il volume in quel 1977 — quando continuava a imperversare la Legge del 1927, quando continuava a imperversare l’ostilità di tutta l’ufficialità politica (ivi comprese le Regioni, rapacissime verso i cospicui patrimonii fondiarii collettivi), quando continuavano a imperversare parecchie incomprensioni di parecchi Commissarii — ebbe almeno un risultato obbiettivo: servì a disseppellire il problema degli assetti fondiarii collettivi dal cantuccio più polveroso della soffitta dei giuristi e a riproporlo come esigenza di un recupero pluralistico in un’Italia repubblicana sempre più permeata dal pluralismo della Costituzione.

Quel 1977 fu davvero una terra di confine. Gli anni successivi hanno mostrato l’avvento di una vita nuova, sia dal punto di vista legislativo sia dal punto di vista della fioritura degli studi e delle iniziative convegnistiche, a partire dall’incontro di Macerata su Comunanze agrarie e terre comuni (1970), fino al «vero e proprio risveglio» degli anni ’80, segnato dal Decreto-legge n. 312 del 27 giugno 1985 avente ad oggetto «Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale», fra le quali erano puntualmente indicate e sottoposte a vincolo paesaggistico le «aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici» (come anche una ventina d’anni più tardi ripete il Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, cioè il cosiddetto Codice dei beni culturali e del paesaggio. Piace ricordare qui che Grossi, in questo contesto, segnala, tra i tentativi riusciti « di creare delle specifiche strutture di appoggio, in modo da dare stabilità al risveglio di idee e di proposte culturali», la prima struttura fondata a Trento nel 1993 da Pietro Nervi, cioè il Centro Studi e Documentazione sui Demani civici e le Proprietà collettive, dove da allora ogni autunno «si adunano uomini di scienza, giudici, avvocati e semplici ‘comunisti’ operanti nei più diversi assetti fondiarii collettivi di ogni parte d’Italia» (p. 74). Questo «risveglio duplice», tanto del legislatore fattosi vigile e attento ai segni dei tempi, quanto di una scienza giuridica «che può serenamente darsi a un’opera inventiva, giacche´ non ha più da contrastare prodotti normativi inadeguati» (pp. 77-78), è seguito dall’Autore con speciale attenzione all’opera determinante della Corte Costituzionale, dalla sentenza 46 del 1995 (la Sentenza Mengoni), confermata nel 1997 e nel 2006, precisata nel 2014 con la sentenza n. 210 ed altre ancora negli anni immediatamente successivi, a sottolineare la natura della proprietà collettiva come « insostituibile strumento di tutela ambientale per la presenza operosa e continua di una collettività alla cura del bene/terra, quasi uomini al servizio di esso e non già al contrario» (p. 80). Ed è naturale che il libro si chiuda con un forte richiamo al «testo confortante» della Legge 20 novembre 2017, n. 168 (Norme in materia di domini collettivi). Scrive Grossi (pp. 93-94):

Emergono a nostro conforto due affermazioni di straordinario rilievo. La Legge non è frutto di un arbitrio del legislatore, bensì un provvedimento che attua dopo settanta anni soluzioni implicitamente previste nel sistema della ‘carta’. La legge intende semplicemente essere un atto di riconoscimento, ed è singolare che l’attuale legislatore statale torni a usare un vocabolo riconoscere, che fu dei nostri Costituenti ed efficacemente espressivo del loro lavoro inventivo: non vollero, allora, creare alcunche´ , ma leggere nel sostrato valoriale della nuova realtà democratica italiana, facendo prevalentemente un’opera di conoscenza.
L’oggetto di questo riconoscere, che diventa il sostanzioso contenuto della Legge, consiste proprio nel pluralismo giuridico, di cui è intessuta la Costituzione del 1948, un contenuto che, grazie alla sapienza giuridica di chi ha pensato e progettato la Legge, si è tradotto nella appropriatissima concezione e qualificazione dei ‘dominii collettivi’ come ‘ordinamento giuridico primario delle comunità originarie’ ‘dotato di capacità di autonormazione... dotato di capacità di gestione del patrimonio naturale, economico e culturale, che fa capo alla base territoriale della proprietà collettiva, considerato come comproprietàinter-generazionale’.

Se si volesse enucleare il significato del libro in esame e renderlo con una sola espressione, si dovrebbe dire che esso sta tutto nella crisi attuale (nella «ridondanza attuale», per dirla con Grossi) del moderno individualismo possessivo, a confronto con gli sviluppi della dottrina sulla proprietà durante il Novecento in tal senso pos-moderno, per il rilievo nuovo delle cose nelle riflessioni novatrici dei Finzi, dei Vassalli, dei Pugliatti. Di questa conquista fondamentale per il diritto e per la società del nostro tempo, di questo «approdo salvifico» è meglio che a questo punto parli non il recensore ma il libro (pp. 84-85):

Un ‘pianeta’ diverso ci si disvela appena che si introduca lo sguardo nel mondo degli assetti fondiarii collettivi, tutti di origine pre-moderna e tutti viventi una loro vita appartata lungo canali che hanno corso paralleli senza incontri con la civiltà giuridica borghese, magari — al contrario — con parecchi scontri a causa della intollerante dominanza culturale di stampo romanistico divenuta ormai programma ufficiale dello Stato. Qui non c’è la pur minima eco della visione potestativa dell’appartenenza della proprietà come potere dell’individuo sulla cosa; anche perche´ qui non c’è l’individuo pensato come realtà insulare, c’è piuttosto un singolo operatore che, però , non è pensabile fuori della nicchia della comunità, che non riesce ad agire fuori di essa e che è assomigliabile alla tessera di un vasto mosaico.
Ciò che ha risalto, che conta, che si pone protagonistica è la comunità ma anche questa, nella visione originaria ed originale, percepita non come struttura rigorosamente definita, ma come una ininterrotta catena generazionale, che noi abbiamo recentemente sacrificato nell’involucro della ‘persona giuridica’, sia per imposizione dello Stato, sia per le esigenze della circolazione giuridica, ma alla quale — nella sua essenza profonda — ripugnava un siffatto irrigidimento.
Prescindendo da queste pur rilevanti notazioni, quel che preme di affermare è la diversa antropologia che sorregge ogni tipo di assetto collettivo rispetto a una antropologia smaccatamente individualistica. Vi si esprime una antropologia decisamente anti-individualistica. Due primati si stagliano: la comu-nità , di cui abbiamo or ora parlato; la cosa, ossia la cosa-madre, la terra, che non è l’oggetto neutro valorizzato unicamente dal potere del soggetto proprietario che su di essa si proietta, bensì la cosa assurgente a valore autonomo in quanto res frugifera, degna di attenzione e di cure perché, grazie alla sua fertilità, garantisce la sopravvivenza della comunità .
Non v’è dubbio che all’antropo-centrismo borghese si contrappone un marcato rei-centrismo. Negli assetti fondiarii collettivi la cosa (res) non è relega-bile tra i fenomeni bruti, ma è realtà vivente e vitale, ossia munita di una vita propria e fonte di vita per le formiche umane che la coltivano. Il nesso da sottolineare non è con i poteri della comunità (che sono limitati e condi-zionati) o del singolo comunista (che, in quanto singolo, non sono ipotizza-bili), ma con la sussistenza stessa di una collettività impegnata a valorizzare la terra nella sua fertilità, a non violentarla od alterarla, sì da trasmetterla con tutta la sua intatta carica vitale alle generazioni future.

Dicevo all’inizio che il libro offre molto di più, con il suo duplice ed attraente carattere di lezione (un’autentica lezione di metodo e d’impegno) e di sincerissima confessione rivolta al lettore giurista così come al lettore che giurista non è, rispetto a quello che avrebbe potuto essere solo un saggio di sintesi sia pure di altissimo profilo. Mi sia perciò permesso, in conclusione di questa lettura, di dire che nello scorrere avanti e indietro queste pagine di grande prosa scientifica il pensiero è andato più volte a una pagina profetica di Salvatore Satta (quella della Presentazione della settima edizione del Manuale di diritto processuale, del 1967), là dove il mio grande conterraneo afferma che c’è una dimensione critica del diritto, in cui il diritto diventa «politica, filosofia, religione, più semplicemente pensiero, l’unica forma concreta di conoscenza che l’uomo possa attingere, pari alla poesia, se pur non è poesia esso stesso», E aggiunge, con un pensiero che a nessuno si attaglia oggi più e meglio che a Paolo Grossi e alla sua opera di giurista-storico: «Non è un caso che i soli veri grandi prosatori italiani siano stati in questi ultimi anni i giuristi» (S. SATTA, Soliloqui e colloqui di un giurista, Prefazione di F. Mazzarella, Nuoro, Ilisso, 2004, pp. 151-152).