Recensioni / Agamben, il logos senza principio

Platone rifiuta le forme tradite della scrittura, quella pendenza o sublime esitazione tra senso e suono, come dice Agamben, e tiene ferma l'idea del linguaggio che, secondo la testimonianza di Aristotele, non era, per lui, né poesia, né prosa,, ma il loro medio. Si ha già una traccia, nelle prime pagine del libro, Giorgio Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, pp. 136, di ciò che questa sospensione possa produrre nelle varie indeterminazioni di quest'opera: una summa poco sistematica del discorso umano. Di quel logos senza principio ma che è propriamente inizio di quell'incessante adagio che è il domandare della filosofia. Agamben è filosofo. Ma si può dire "è" di un filosofo? Si può oltraggiare così una fluidità di un'idea, di un'aporia, di un principio primo? E come se tutto ciò esistesse e non fosse altro che l'inizio del tutto. Una tavoletta bianca. La durata di un esilio La comprovata esistenza di una fitta. Della crisi. Ovvero della scelta. Perché come può il pensiero porre la domanda intorno al principio del pensiero? Come si può, in altre parole, comprendere l'incomprensibile? Questo trasporto del linguaggio verso il vuoto, del verso in direzione di quella cesura che è lo svolgimento dell'assolutamente Altro inconoscibile e inaudibile? Forse, un'immagine. O un'idea di forma è ciò che resta o induce al cammino. All'opera Damascio, ultimo scolarca della scuola di Atene ebbe, in una notte forse di luna, quello che fu il luogo dove potevano accadere le immagini, le parole, il fiato. Non la figurazione ma qualcosa di più semplice ma completamente immane: un'area assolutamente liscia e piana e in cui nessun punto poteva essere distinto da un altro. Un'aia, uno spazio, un universo che subito diventa alone. Luce. Aureola. Luminosità. Scrittura. E certo, scrisse, che dell'assolutamente ineffabile non possiamo nemmeno affermare che è ineffabile e, dell'Uno, dobbiamo dire che si sottrae a ogni composizione di nome e discorso, come anche a ogni distinzione, qual è quella del conoscibile e del conoscente. Tuttavia la scrittura, la luce o l'oscurità, è ancora immagine, dice Agamben, ii limite ultimo che il pensiero può raggiungere non è un essere, nemmeno è un luogo o una cosa ma la propria assoluta potenza, la pura autorevolezza della rappresentazione stessa: la materia. Dove finisce il linguaggio, comincia non l'indicibile, ma la materia della parola. Trentatré piccoli trattati di filosofia con dodici immagini dialettiche. E ciò che si riporta nel retro di copertina in norma del tutto atipica. Ma che cosa c'è, invece, di veramente singolare in queste Idee che si rincorrono come in difetto di oggetto o solamente in assenza, distaccate, finali? Non una sorta, una voce, d'inaccessibilità, di chiusura che rende il libro di un'attrattiva maiuscola e senza tempo quanto di una sottomissione all'impero del limite. Limite superiore, il cielo. Limite inferiore, la terra. Chi? E il limite iniziale. Che? E il limite finale. Agamben ci ricorda che Giacobbe li riceve in eredità entrambi e si tiene nel loro medio. Heidegger non aveva scritto che la grandezza di un pensatore si misura dalla fedeltà al proprio limite interno, e che non conoscere questo limite e non conoscerlo per la prossimità all'indicibile è il dono segreto che l'essere, rare volte, può fare? Ed ecco la verità, la crepa che si fissa attraverso il linguaggio in un mondo di cose. L'eterno ritorno è come un'ultima cosa ma insieme anche l'impossibilità di esserlo. La ripetizione eterna del chiudersi della verità in uno stato di cose è, in quanto ripetizione, anche l'impossibilità di questa chiusura. E la suprema formulazione di Nietzsche, dice Agamben. Il solo urto possibile alle determinazioni dell'inapparente. Odi ciò che non si dà che come scrittura insoluta, ma non misteriosa e magmatica. Un maestro deve smorzare l'ispirazione. Il poeta ispirato è senz'opera. Nel pezzo dedicato a Derrida, Agamben è quanto mai incisivo. Nitido e inequivocabile. Dov'è caduta una voce, dove il fiato è mancato, sta, in alto, un piccolo segno. Su nient'altro che quello, esitante, si avventura il pensiero. Qui linguaggio oltre che erranza, frattura del testo, diviene etica dell'opera per negazione della sua stessa esistenza. Nell'Idea dell'epoca, Agamben chiarisce bene questa sconfessione dell'opera. Per questo noi non vogliamo nuove opere d'arte o di pensiero, non desideriamo un'altra epoca della cultura e della società: quel che vogliamo è salvare l'epoca e la società dalla loro erra,nza, nella tradizione, afferrare il "bene" - indifferibile e non epocale — che era in esse contenuto. L'assunzione di questo compito sarebbe l'unica etica, l'unica politica all'altezza del momento. Sembrerebbe piuttosto una stravaganza che un'assunzione di responsabilità. Si è assetati di aria. Nondimeno l'unico modo, chiarisce il filosofo, è ancora la lotta tra il dicibile e l'indicibile. Ovvero è sempre all'interno del linguaggio che si gioca la partita dell'inesplicabile o della vacuità del "fracasso" o del fragore dei templi e dei tempi. E sempre sulla soglia, sebbene nel libro essa si divida in due. Una all'inizio e l'altra alla fine. Un richiamo alla circolarità di qualsiasi opera, all'eterna inversione di Nietzsche o una più prosaica Idea dell'enigma? Che l'enigma non ci sia, che nemmeno l'enigma riesca a catturare l'essere, che è, perfettamente manifesto e assolutamente indicibile, questo è ora il vero enigma, di fronte al quale la ragione umana si arresta impietrita. E quindi, il silenzio. Il silenzio di ogni volto. Il tacere della parola, del logos, dell'opera. O il suo diventare visibile idea di linguaggio. I nostri incliti padri, infatti, patriarchi, chiosa Agamben, non trovando nulla da spiegare, cercarono in cuor loro come potessero esprimere questo mistero e non trovarono, per l'inesplicabile, nessuna espressione più adeguata della spiegazione stessa. Il solo modo — essi argomentarono — per spiegare che non c'è nulla da spiegare è di darne spiegazione. Ogni altro contegno, compreso il silenzio, afferra l'inesplicabile con mani troppo maldestre: solo le spiegazioni lo lasciano intatto