Recensioni / L’Afrique fantôme, encore

La storia editoriale di un libro è sempre una lente privilegiata attraverso cui osservare la qualità e la tenuta di un testo nel corso degli anni. Lo è ancora di più se, come nel caso del monumentale L’Afrique fantôme – un “mostro” l’ha definito James Clifford, tra i suoi lettori più entusiasti – le differenti edizioni (cinque, tutte per Gallimard e tutte collocate in una diversa collana) che hanno seguito la prima, del 1934, non hanno di fatto modificato il testo originale. Questo perché Michel Leiris, inesperto “segretario archivista” della missione etnografica Dakar – Gibuti di cui proprio L’Afrique fantôme rappresentava (anche) una inopportuna cronaca, non ha in alcun modo voluto attenuare il carattere d’immediatezza e di spietata, scandalosa soggettività di questo suo journal, un intimo diario di viaggio, uno zibaldone disciplinato dagli obblighi del calendario più che dai metodi di una giovane disciplina, l’etnografia, che Leiris – “uomo di lettere” come lo avrebbe definito, non senza irritazione, Marcel Mauss – aveva allora avvicinato da poco, e comunque in maniera obliqua e certamente non professionale, incontrandola nelle aule dell’École pratique des haute études o al neonato Institut d’ethnologie e soprattutto nella redazione di “Documents”, rivista eterodossa animata da Georges Bataille e da Georges Henry -Rivière, un laboratorio virulento in cui si realizzava l’impresa impossibiledi una collisione tra “una teoria scientifica europea e la pratica negra”.
In quelle stanze in cui si incrociarono tra il 1929 e il 1930 paludati archeologici, surrealisti insofferenti alla tutela bretoniana, rigorosissimi storici dell’arte (Carl Einstein, tra gli altri) e poeti melomani, tutti egualmente convinti della necessità di confrontarsi con la concretezza irredenta e scioccante del documento, il giovane Michel Leiris aveva avuto modo di conoscere l’ambizioso etnografo Marcel Griaule, che di ritorno dall’Etiopia gli era stato affiancato come segretario di redazione. Quando il ricercatore ebbe l’opportunità di tornare in Africa a capo di una nuova missione, propose a Leiris, con il quale aveva stretto amicizia, di accompagnarlo in quell’impresa. Per la molto celebrata – e ancora coloniale – spedizione Dakar- Gibuti, una campagna di raccolta etnografica finanziata dal governo francese e dai tanti parigini che parteciparono ai mondanissimi eventi organizzati a sostegno della missione (uno per tutti, il mitico gala di boxe con il campione del mondo Al Brown al Cirque d’Hiver), Griaule aveva bisogno di una persona di fiducia che fosse in grado di registrare e schedare gli oggetti e organizzare tutta la documentazione prodotta nel corso della spedizione. Leiris non ebbe esitazioni nel dare la propria disponibilità, decidendo di interrompere l’analisi, da poco iniziata, con Adrien Borel per lanciarsi in quella che considerava soprattutto “un’avventura poetica”.
Leiris, che ha raccontato di aver avvicinato les choses nègres alla fine della prima guerra mondiale grazie ai ritmi notturni del jazz, musica da ballare senza regole, suono in cui riconoscere l’energia e la verità del corpo liberato[4], aveva immaginato di trovare in quel lungo viaggio africano finalmente una definitiva cura al suo malessere occidentale, un rimedio alle debolezze di un pensiero incapace di sopportare la radicalità del sacro, la potenza dell’eros, la crudeltà necessaria del sacrificio. Che Leiris si aspettasse molto da quella fortuita occasione lo si capisce anche dai toni persino ingenui con cui, proprio su “Documents”, nel novembre del 1930 definiva l’etnografia la più “generalmente umana delle discipline”, l’alternativa più efficace alle sterili querelles dell’avanguardia parigina, “il compimento di certi sogni d’infanzia e, al tempo stesso, un modo di lottare contro la vecchiaia e la morte gettandosi a corpo morto nello spazio per immaginare di sfuggire al passare del tempo (dimenticando così la propria personalità transitoria al contatto concreto con un gran numero di uomini in apparenza molto differenti)”.
Di tutte queste attese, della speranza e dell’euforia della vigila restava ben poco già nell’aprile del 1932, quando, in una impietosa pagina dall’Egitto, Leiris annotava: “Sono ingrassato. Provo un’ignobile sensazione di pletora. Io che contavo di rientrare dall’Africa con l’aspetto affascinante e profondamente sognato di un corsaro. La vita che conduciamo è quanto mai piatta e borghese, il lavoro, non molto diverso dal lavoro di fabbrica, di studio o di ufficio: perché l’inchiesta etnografica mi ha fatto spesso pensare a un interrogatorio di polizia?”. E pochi giorni dopo, abbozzando il testo di una prefazione in previsione della pubblicazione del diario (aveva già chiesto alla moglie Zette, destinataria delle sue note di viaggio e indispensabile testimone della sua vita, di trovargli un buon editore), aveva scritto che “nonostante [nelle sue note] si ritrovino il resoconto del viaggio, alcuni echi del lavoro svolto, le più memorabili delle nostre tribolazioni, esse non costituiscono nient’altro che una cronaca personale, un diario intimo che avrebbe potuto essere benissimo redatto a Parigi, ma è stato tenuto in giro per l’Africa”[6]. In questa, come in molte altre pagine di un libro per Leiris “disgraziato” – accolto alla sua uscita dalle reazioni ostili di Griaule, a cui era peraltro dedicato, di Mauss e di Paul Rivet, responsabile del Musée d’Etnographie del Trocadero – appare inequivocabile tutta la disillusione dello scrittore.
Jean Jamin, antropologo che all’impegnativa eredità di parole e di pensiero affidatagli da Leiris ha dedicato decenni di studio e di cura editoriale, nella sua introduzione all’ultima, postuma edizione dell’ Afrique fantôme, ha ripreso per intero la dolente, per alcuni versi persino sconcertante, prière d’insérer che accompagnava l’uscita del libro nel ’34. Un testo breve e decisivo dove, rinunciando alla prima persona, Leiris dichiarava del tutto fallimentare il proprio tentativo di evasione: “poche avventure, studi che prima lo appassionano e che presto si rivelano troppo disumani per soddisfarlo, un’ossessione erotica crescente, un vuoto sentimentale sempre più grande. Malgrado il suo disgusto per i popoli civilizzati e per la vita della metropoli, verso la fine del viaggio egli aspira al ritorno”. Un’ammissione o, meglio, una confessione – Leiris aveva scelto come esergo per la premessa alla seconda edizione del suo giornale africano proprio un passaggio delle confessioni di Rousseau – che avrebbe trovato sostanziale conferma anche nelle note anteposte alle successive edizioni del volume: quella del 1951, che a dieci anni dal suo ritiro ad opera del governo di Vichy rimetteva in circolazione l’Afrique fantôme, un libro che ora a Leiris, più che mai certo che “nessun uomo vivente […] potrebbe considerarsi a posto con una fuga e una confessione”, appariva superato e invecchiato, e quella del 1981, in cui l’Africa si mostrava agli occhi di un’ormai stanco Leiris più fantasma che mai, una promessa mancata, un continente abbandonato alla violenza di un nuovo colonialismo.
Eppure – o forse proprio per questo – dopo mezzo secolo dalla sua stesura questo “diario a doppia entrata”, in bilico tra autoanalisi e documentazione di cose esteriori (vissute, viste, apprese) a Leiris pareva di nuovo e ancora degno di essere proposto. Ai lettori francesi e non solo, perché è solo di qualche anno più tardi la prima, coraggiosa edizione italiana dell’Africa fantasma. Pubblicato nel 1984 da Rizzoli con la traduzione di Aldo Pasquali, il volume era aperto da una esemplare introduzione di Guido Neri, che in un saggio documentatissimo, arricchito dal confronto con lo stesso Leiris, presentava ai lettori italiani non solo un testo di difficile collocazione ma anche un autore che in Italia era allora noto soprattutto per le pagine di Età d’uomo, libro del 1939 tradotto nel 1966 da Andrea Zanzotto per i Quaderni della Medusa di Mondadori. Nonostante la mole e il costo del volume, quella prima edizione de L’Africa fantasma andò subito esaurita, e fu un successo a cui contribuì probabilmente anche l’interesse crescente per le nuove proposte critiche dell’antropologia, sempre più attenta ad accentuare la dimensione narrativa e interpretativa della disciplina.
Ora, dopo trentasei anni di assenza, L’Afrique fantôme torna finalmente a parlare italiano. Lo fa in un’edizione curata da Barbara Fiore per Quodlibet-Humboldt che sostanzialmente riprende quella francese del 1996 a cura di Jamin, di cui ripropone quasi per intero l’introduzione, le note, l’apparato iconografico e la bio-bibliografia, ferma appunto al 1996, utilizzando la traduzione, ancora molto efficace, di Pasquali. Ma perché ripubblicare ora in Italia questo smisurato libro tante volte citato e tanto poco letto? È una domanda che Barbara Fiore nel saggio Fantasmi d’Africa non si pone, più interessata a ricostruire l’articolato e certo appassionante scenario in cui il libro trovò prima le sue motivazioni e poi una difficile accoglienza. Credo però che provare a ragionare sui motivi di questa scelta, certo non improvvisata (in una nota il libro viene dato in bozze già nel 2015), non sia poi inutile.
A voler tentare quindi qualche risposta, o almeno qualche ipotesi, non si può non partire dalla considerazione, persino ovvia, che è proprio il carattere impuro del testo ad essere di un’attualità quasi imbarazzante. Palinsesto in cui, regolati da un’implacabile cronologia, confluiscono l’autobiografia, il diario, il racconto di viaggio, la relazione scientifica e, naturalmente, la trascrizione dei sogni, L’Afrique fantôme è non soltanto un colossale anti-romanzo (del resto, proprio il romanzo, e quindi “la chiarezza che confina con la stupidità, la vita dei cani”, era stato uno dei bersagli del Primo manifesto del Surrealismo) ma è ancor di più un esemplare esercizio di scrittura ibrida, in cui il dato (auto)biografico, il documento, la confessione e il saggio costruiscono una testo in cui non trova spazio la finzione, un racconto (una cronaca, un regesto) di cui l’autore è a un tempo personaggio e testimone, proprio come oggi accade in quella che Andrea Cortellessa ha definito “letteratura ready-made”, una letteratura che sembra sottrarsi alle strategie e alle soluzioni della finzione ma che non per questo è poi trasparente, senza ambiguità e correttivi più o meno ortopedici. Omissioni e dissimulazioni a cui lo stesso Michel Leiris non si è certo sottratto: homme du secret discret (Hollier), nel suo sterminato Journal (1922-1989) Leiris ha mantenuto infatti ben nascosta la verità sulla nascita della moglie Louise, l’amata Zette, che non era sorella, come ancora alcune biografie riportano, ma figlia naturale della moglie del celebre gallerista Henry Kanhwheiler.
L’Africa fantasma non incontra però le domande del nuovo secolo soltanto per la sua scrittura spuria, al crocevia di generi e tradizioni, una prima, involontaria, prova di quella letteratura come tauromachia, in cui “il corno è presente in una forma in un’altra: come rischio diretto”, che sarà poi la dichiarata cifra di tutta la produzione letteraria di Leiris, da L’Âge d’homme a La règle du jeu. Le pagine spesso sconcertanti, sempre scomode, dell’Africa fantasma sono un documento che interroga il nostro presente globale spogliando di ogni facile partito preso l’incontro con l’altro, altro a cui Leiris si era avvicinato forte di un pregiudizio rovesciato per poi dover riconoscere sul campo che alla fine l’altro è sempre il nostro specchio – Miroir d’afrique è appunto il titolo del volume in cui Jamin ha raccolto gli scritti “africani” di Michel Leiris – un riflesso in cui è scomodo, ma necessario, guardarsi per non tradire la comune umanità. Lo sapeva Aimé Césaire, il “grande poeta della decolonizzazione” di cui Leiris fu amico, che nel suo Discorso sulla colonizzazione (1955) scriveva: “il colonizzatore che, per giustificarsi agli occhi della propria coscienza si abitua a vedere nell’altro un animale, abituandosi a trattarlo da bestia tende oggettivamente a trasformare se stesso in bestia. È questo effetto, questa ripercussione della colonizzazione che è importante segnalare”.
Una citazione con cui Alice Procter ha aperto il suo recente saggio The Whole Picture. The colonial story of the art in our museums and why we need to talk about it (2020), confermando una volta di più come anche in tempi di matura globalizzazione e nonostante anni e anni di letteratura, di critica e di filosofia postcoloniali e interculturali, non sia affatto chiusa la questione di come agire la relazione con chi abita lingue e tradizioni che non sono (ancora?) le nostre. Le angoscianti cronache recenti ne sono la prova. A fronte di un presente minaccioso, in cui la chiusura delle frontiere non è solo un momentaneo effetto della pandemia, la spietata e anche sgradevole verità del viaggio africano di Leiris resta un antidoto potente tanto alla brutalità dell’esclusione e della xenofobia quanto alle vie troppo brevi dell’assimilazione e della tolleranza. Ci dice la fatica del contatto, il lavoro duro della conoscenza che passa attraverso le delusioni e le fragilità, l’insofferenza, il rifiuto, la meraviglia, la seduzione, l’amicizia.
“Sarebbe sicuramente meglio andare a zonzo come uno stupido qualsiasi che ogni tanto fa il suo numero, per distrarsi o per igiene. Lavorare. Inaridirsi. Invecchiare”. Lo scriveva da Gondar, nell’agosto del 1932, Michel Leiris, che al ritorno dalla missione Dakar-Gibuti sceglierà di fare proprio dell’etnologia il suo secondo mestiere. Senza più entusiasmi surrealisti, con la fermezza di chi ha semplicemente deciso di non sottrarsi al rischio della propria umanità.