Possono l'insegnamento e lo studio servirsi
virtuosamente della
virtualità della rete?
L'emergenza della pandemia ha sospeso ogni
dubbio al riguardo trasformando l'«opportunità» della formazione on line in
una temporanea «necessità». Leggendo Giochi di pazienza. Un seminario sul Beneficio di Cristo
(Quodlibet, pp. 304, €20,00)
che Carlo Ginzburg e Adriano Prosperi hanno scritto più di quarant'anni fa, sembra di intravedere il ponte di senso che può connettere e valorizzare le polarità «tradizione —innovazione» senza cedere
a fanatismi e tentazioni unilaterali: «la lettura lenta e il velocissimo
girovagare negli spazi invisibili
della rete devono coesistere, e interagire», osserva nelle sue note conclusive Carlo Ginzburg.
Nel 1971 gli autori, «uniti da
una componente ludica e dall'inquietudine dei tempi», decisero di
organizzare un seminario mescolando due gruppi di studenti: l'obiettivo era l'interpretazione del
Beneficio di Cristo, un controverso
libro di pietà del Cinquecento. Già
nel titolo del resoconto che avrebbero scritto quatta, anni dopo, si
annunciano l'andatura e lo spirito
di un lavoro singolare in cui la filologia, se pure rigorosamente presente, lascia ampi margini al «gioco» inteso, qui, come spazio favorevole all'emersione dell'imprevisto e ai contributi del caso.
Del Beneficio, stampato anonimo nel 1543 e diffuso in Italia in
molte migliaia di copie, l'Inquisizione aveva distrutto in pochi anni
la quasi totalità degli esemplari. Il
rinvenimento di una copia superstite presentò agli studiosi dell'Ottocento tutte le ambiguità che ne
avevano originato la rapida censura: da una parte appariva un testo
consolatorio in «dolce stile» del beneficio arrecato da Cristo all'umanità; d'altra parte affiorava, di incerta attribuzione, la mano di due
autori come in «una tela ridipinta»;
ma, soprattutto, si andavano identificando, tra le righe, «`prestiti' nascosti e inquietanti»: «criptocitazioni calviniste» assieme a echi valdesiani, luterani e pelagiani.
Quando il lavoro di Prosperi e
Ginzbug ebbe inizio, dunque, si
partiva da una impostazione storiografica che circoscriveva l'analisi del Beneficio al perimetro della
«battaglia tra la Chiesa cattolica e
gli eretici nel senso della Riforma
protestante». «Spazzolando la storia contropelo», direbbe Benjamin, gli autori decisero di guardare al Beneficio senza «rassegnarsi
all'imitazione», pronti a «sporcarsi
le mani con la ricerca empirica».
Animati, in particolare, dal desiderio di comprendere perché quel
piccolo libro avesse riscontrato
all'epoca un successo tanto strepitoso, giunsero a leggervi una «fiammata di misticismo visionario» capace di confortare una moltitudine disorientata il cui bisogno religioso, reso acuto dalla crisi generale della società, aveva perso le coordinate simboliche del secolo precedente. Lo sguardo storico si allargava, insomma, oltre le dispute dei
protagonisti istituzionali e diveniva capace di percepire il «contesto», le atmosfere quotidiane, le incertezze palpitanti e le vite sommerse di quel tempo vertiginoso.
La metodologia di analisi adottata nel seminario e poi attualizzata
nel libro, del resto, prevedeva
espressamente criteri innovativi,
per non dire rivoluzionari: uno sforzo di consapevolezza e dimessa in discussione della «onnipotenza dei
presupposti» (compresi quelli personali, sia biografici che ideologici);
una «disponibilità illimitata» nei
confronti del «dato non anticipato,
anomalo», in una parola nei confronti del caso; e su tutto vigilava «la
suprema istanza dell'indagine», ovvero il controllo filologico.
Raccontando l'«indocile e tortuoso iter» del seminario («errori
compresi») il testo trasmette, dunque, accanto agli esiti dell'analisi
storiografica, la vivacità della dimensione narrativa. In più occasioni Carlo Ginzburg ha raccontato di
avere assunto dai racconti, dai romanzi, dalla psicoanalisi e dalla critica letteraria una spinta significativa a rendere il lettore partecipe
non soltanto dei risultati della ricerca storica ma anche del suo farsi: «una scelta stilistica, cognitiva e
politica che trae ispirazione dalla
letteratura del `900 — una categoria
abbastanza ampia da includere sia
Marcel Proust sia Bertol Brecht».
Mantenendo porosi i confini tra le
due discipline, inoltre, si propaga
all'analisi storica quel nutrimento
che la letteratura, in quanto «immaginazione morale», da sempre
somministra al pensiero: «parlare
di un frammento (magari minuscolo) della realtà come se si trattasse
di un mondo, anzi del mondo».
E quando questo frammento si
rivela essere, nella ricostruzione
storica, il gemito di una sofferenza
anonima o di una minoranza perseguitata, allora possiamo cogliere
la portata etica di un metodo di analisi che preveda di intercettarla e di
«dargli voce». La vocazione a mantenere la cultura e la ricerca in contatto con la vita, cioè la capacità di non
tradire l'«incontro» per il «discorso»,
è radicata anche nella sensibilità auto-biografica e psicologica dei ricercatori: lo testimonia Carlo Ginzburga proposito del suo interesse di
giovane studioso verso i processi di
stregoneria: «dietro l'impulso a studiare le vittime c'era, senza che me
ne rendessi conto (una rimozione
che mi parve, molti anni dopo, incredibile) l'esperienza della persecuzione che aveva fatto di me, durante la
guerra, un bambino ebreo».