Recensioni / Un poeta pellegrino a Gerusalemme

Una trasferta del 1969 nella capitale israeliana attraverso le impressioni raccolte dalla ua amica d’infanzia

Il titolo della raccolta si presta un equivoco: Dì che Gerusalemme è potrebbe infatti sembrare l'invito a una scelta tra diverse città possibili. Celan pensò invece questo verso per enunciare con forza una realtà unica e immutabile: voleva invitare il lettore a proclamare che Gerusalemme «è», ovvero che esiste. Era il febbraio 1969 e i1 poeta si stava avventurando in quella che fu forse l'ultima duplice passione della sua vita. Passione intellettuale per una terra d'Israele, che gli sembrò per un attimo rifugio accogliente, e attrazione sentimentale per un amica Ilana Shmueli, frequentata a Cernowitz nell'adolescenza e poi tardivamente ritrovata.
Nel libro che esce ora per Quodlibet, la Shmueli ripercorre gli ultimi mesi di vita dello scrittore e rilegge il crepuscolo della sua attività poetica. E' un diario quasi privato, composto con    stralci di lettere e citazioni da liriche che Paul le inviava scritte a mano e intessute d'intimità. Dopo il matrimonio burrascoso con Gisèle Lestrange e ripetuti soggiorni in clinica, la salute mentale dello scrittore era ormai assai fragile e la quotidianità era divenuta solo un velo teso a schermare il nulla. La rinnovata condivisione spirituale con la Shmueli e il sofferto entusiasmo per il paesaggio e i paradossi della vita israeliana furono per Celan come una promessa di normalità. All'inizio dell'ottobre 1969 giunse a Gerusalemme per riappacificarsi con le pietre, le luci e le sabbie della città. Tenne discorsi pubblici tanto ispirati quanto un po' algidi nella loro estenuata rarefazione intellettuale europea, difficili da comprendere per un uditorio che si raccoglieva ad ascoltare il poeta "tedesco" con una curiosità mista d'imbarazzo.
Ben presto, il senso d'estraneità salì in Celan come un'onda scura ed egli lasciò il Paese anzitempo, dopo solo un paio di settimane. Nelle testimonianze raccolte dalla Shmueli ci rimane la cronaca di un pellegrinaggio allo stesso tempo irrinunciabile e incompiuto. Ci resta una Gerusalemme descritta con versi che paiono affollati di vento tra le strette inferriate del tedesco. Pochi poeti hanno saputo interpretare la geometria essenziale della città santa con altrettanta lucidità. Celan scarnifica Gerusalemme sino a farne un torso silenzioso di pura luce: oppure la proietta nel cosmo, «nel vedente azzurro della massa di stelle, di dio senza consiglio». La Gerusalemme celeste del poeta di Cernowitz è una compiuta icona atea, disperata e siderale, che sembra ergersi irraggiungibile "come altro sole".
Ma anche la Gerusalemme terrena, con la sua topografia sovraccarica di metafore, riacquista un'angosciata pertinenza novecentesca. la tomba di Assalonne, nella calura del mezzogiorno, l'orto del Getsemani e la porta della misericordia, murata per non lasciar passare il Messia, divengono altrettanti indizi del segreto potere della realtà: quello di svelarsi e poi di nuovo occultarsi per sola forza di nomi.
Di ritorno a Parigi, Celan scrisse – dopo quindici poesie su Gerusalemme – una sedicesima lirica, che comincia in tedesco con la parola «da Nichts», il Nulla. È come un inno alla non-esistenza che aleggia sopra l'essere e anche il sigillo stampigliato a pochi dal suicidio. Nella mistica ebraica – che Celan aveva frequentato soprattutto sulle orme di Scholem – la contrazione di Dio in se stesso svuota la realtà da una luce onnipervasiva e lascia così spazio all'esistenza del cosmo materiale e all'oscurità che lo intride. Per la propria uscita dal mondo, prima poetica e poi fisica, Celan sembra aver immaginato un procedimento simmetrico e contrario: in questi suoi versi, il ritrarsi dell'energia in un solo punto è alla fine e non all'inizio del dicibile. Tutto si raggruma per il poeta in un solo nucleo, "nel non differenziato", in cui "l'umida fredda luce" non è altro che l'ultimo seme del non-essere.