«Lo scopriremo
solo vivendo»,
cantava Battisti con le parole di Mogol. Che avessero letto, quei due talenti della musica italiana, il famigerato, eruditissimo libro di storiografia cinquecentesca intitolato Giochi
di pazienza, scritto da Carlo
Ginzburg e Adriano Prosperi
quasi cinquant'anni fa? Con le
date ci saremmo (il libro esce
nel ’75, la canzone nell’80), ma
c'è da dubitarne: come mettere accanto una canzonetta pop
come Con il nastro rosa, ordinaria avventura d'una indecisione amorosa, e un volume accademico ricco e complesso che
si dipana fra religiosità popolare e Chiesa cattolica, Riforma
protestante e Controriforma,
agostinismo e pelagianesimo,
e che approda all'idea di una
via tutta italiana alla Riforma
delle istituzioni ecclesiastiche? Eresia, si dirà - ricadendo
però esattamente nel tema del
libro, che di versioni più o meno corrette del credo cristiano
appunto discetta.
«Dovendo scegliere e studiare le mie mosse / sono alle impasse», canticchiano ancora
Battisti-Mogol con una rima arditissima. E di sviste ed errori,
congetture e confutazioni, incontri casuali e colpi di fortuna, di serendipità insomma,
parlano Ginzburg e Prosperi in
questo volume esemplare, quasi vintage, al tempo stesso affermato e dimenticato di ricerca
storica - che adesso Quodlibet
rimanda meritoriamente in libreria. Dove tutto si gioca intorno a una celebre battuta di
quel grande sinologo francese
che fu Marcel Granet: «Il metodo è la strada dopo che la si è
percorsa». Come dire che, con
buona pace dei razionalisti cartesiani, la ricerca storica (ma
in fondo anche quella scientifica: i due autori citano Thomas
Kuhn) non è un procedere secondo regole prestabilite, seguendo percorsi preventivamente decisi, ma un ricostruire a posteriori quel che s'è fatto, individuandone il come e il
perché. E includendo in ciò il
caso e la necessità, l'accidente
inaspettato e le precondizioni
ideologiche, come anche le
simpatie personali e l'aria che
tira- in nome, si badi, di un continuo controllo filologico dei testi e dei documenti.r>
Ricostruiamo il contesto.
Nell'autunno del ’71, quando
ancora i corsi universitari duravano benemeriti nove mesi,
Ginzburg e Prosperi si ritrovano a Bologna da docenti di belle speranze (ma il primo ha già
pubblicato I benandanti e sta
per mandar fuori Il formaggio e
i vermi) e decidono di organizzare un seminario collettivo
(l'aria del '68 si respira forte)
con i loro rispettivi studenti di
due diverse Facoltà, Lettere e
Magistero, intorno a un curioso testo religioso di metà Cinquecento, il Trattato utilissimo
del beneficio di Giesù Cristo crocifisso verso i cristiani. Best seller dell'epoca (c'è chi parla di
40.000 copie), avversatissimo
dalla Santa Inquisizione che lo
manda all'Indice e ne brucia le
copie, il Beneficio di Cristo,
com'è di solito chiamato, già
da subito è soggetto a molteplici letture, volte non solo a individuarne l'autore ma soprattutto a indicarne il significato religioso che giustificasse le sue
fortune e soprattutto le sue avversità. Si tratta di un testo
complesso, arzigogolato, spesso contraddittorio, che gli studenti, a cui viene inflitta la lettura già a inizio corso, trovano
decisamente noioso. Tuttavia
la storia delle sue interpretazioni è tempestosa, e le ipotesi sono tanto molteplici quanto eteroclite: c'è chi parla di un libro
valdesiano, chi luterano, chi
calvinista, e ancora flaminiano, contariniano, benedettino,
pelagiano...
La posta in gioco è importante: libero arbitrio o predestinazione? Sentimento religioso
autentico e ingenuo, popolare
e diffuso, oppure ingerenza necessaria della Chiesa nella vita
del buon cristiano? Temi decisivi, allora come adesso. La dottrina rivendicata nel Beneficio, al di là di tutto, emana una
straordinaria «dolcezza», e lo
stile, per quanto arduo, è fortemente poetico.
Praticando una severa analisi del testo, Ginzburg e Prosperi si insinuano così nel ginepraio delle esegesi e, con la partecipazione attiva dei ragazzi, riescono alla fine, dopo averne
scartate parecchie, ad avanzare una propria lettura: non si
tratta di un autore ma di due,
per giunta non concordi nella
questione della predestinazione; siamo di fronte a un cosiddetto testo di pietà che va inserito in quel movimento di Riforma italiana che sia i cattolici
sia i protestanti avevano fortemente avversato sino a cancellarne le tracce. I giochi di pazienza portano buoni frutti.
Ma al di là dei risultati (in appendice Prosperi riporta fedelmente le letture successive alla
loro), quel che conta è il metodo, la retrovisione della strada
che si è poco a poco percorsa.
Non solo allora fece scandalo
la pratica trasgressiva del seminario collettivo, ma soprattutto sembrò inopportuna la scelta di scrivere un libro non tanto
esponendo direttamente i risultati della ricerca ma raccontando la ricerca stessa, passo passo, scoprendone il senso e il valore solo vivendola. Con tutte
le impasse del caso trasformate in strade maestre. Il libro si
chiude significativamente con
una frase implicitamente proustiana: «cominciammo a scrivere»