Recensioni / Paolo Baldeschi

I due piani paesaggistici in copianificazione con il Mibact approvati in Italia nel 2015 (1), quello della Regione Puglia e quello della Toscana, hanno avuto come protagoniste Angela Barbanente e Anna Marson, entrambe docenti universitarie e assessore all’urbanistica nel periodo di elaborazione dei piani stessi. La prima, suppongo, con un maggiore supporto politico rispetto alla seconda che ha dovuto affrontare l’ostilità del Consiglio regionale, espressione toscana della mutazione dell’ex Pc, ora Pd, da partito della buona amministrazione a partito degli interessi. Aggiungo che non è casuale che questi importanti obiettivi siano stati raggiunti da due donne. Solo una donna – parlo qui delle vicende toscane che ho seguito da vicino – poteva avere la pazienza, la tenacia e la forza di riuscire a portare a termine l’impresa nei tempi stretti del proprio assessorato, nonostante un boicottaggio politico e tecnico e con l’incerto appoggio del Presidente della Regione (2). Significativo il fatto che dei tecnici (ma preferisco chiamarli universitari) abbiano rivestito un importante ruolo istituzionale e che ciò sia stato un elemento fondamentale per la riuscita dei due piani (3). A riprova, se ve ne fosse bisogno, della debolezza di una pianificazione lasciata sola e nuda in amministrazioni sempre più piegate a interessi partitici.
Ora, Anna Marson, dopo avere pubblicato per gli editori Laterza (4) un ampio compendio di saggi che raccontano il piano toscano, raccoglie in un libro per l’editore Quodlibet – Urbanistica e pianificazione nella prospettiva territorialista (2020) –, una serie di scritti che, da vari punti di vista e in diverse esperienze, affrontano il tema della “pianificazione nella prospettiva territorialista”. Prospettiva che, allo stato attuale, ha una presa minore in ambiti urbani, non fosse altro per una mancata sperimentazione, anche se nell’idea di città come stratificazione di operazioni morfogenetiche e nell’impiego analitico di modelli tipologici, vi sono punti di contatto tra la scuola muratoriana e quella territorialista. Ma si tratta di contatti metodologici, tutto sommato superficiali, perché la prima è muta su ciò che è ingrediente essenziale della seconda, il protagonismo delle “genti vive”, ciò che in maniera forse inadeguata chiamiamo “partecipazione”.
I principali paradigmi della scuola territorialista sono noti agli studiosi della materia e non vale la pena di ripeterli. D’altronde, l’introduzione di Anna Marson riesce a sintetizzarne gli aspetti più importanti in modo lucido e incisivo. In questa linea, anche lo scritto di Angela Barbanente che, non casualmente, inaugura i capitoli del libro con l’illustrazione di alcuni capisaldi del piano pugliese. Si tratta dell’unico piano vero e proprio presentato nel libro. Gli altri autori illustrano esperienze progettuali di cui sono stati coprotagonisti, diverse tra loro e differentemente connotate e contestualizzate. Il merito delle diverse testimonianze non sta soltanto nel fare il punto sullo stato dell’arte di pratiche progettuali iscritte, in senso lato, nell’approccio territorialista; sta, soprattutto, nel metterne in luce punti di forza e di debolezza, nell’affrontare alcuni nodi critici che, senza la pretesa di soluzioni definitive sono portati a un confronto con i fatti; in un processo di provare e riprovare che contribuisce a raffinare e rendere più incisivo il progetto territorialista.
Nel libro le pratiche danno luogo a riflessioni originali: il disegno come interpretazione del patrimonio territoriale (Marco Prusicki); bioregione, visioning e scenari del futuro (Alberto Budoni); la rigenerazione urbana (Carla Tedesco e Ilaria Agostini); l’approccio territorialista alla pianificazione delle aree protette (Luciano de Bonis); e, ancora, temi prettamente metodologici (Claudio Saragosa) e pratiche interattive di partecipazione (Maddalena Rossi). Più che commentare ogni singolo scritto vale la pena di metterne a fuoco alcuni temi trasversali. Tra i tanti possibili, ne scelgo tre: la partecipazione; il ruolo problematico della società locale, ancora più problematico se questa viene connotata come “comunità”; il paradigma di “patrimonio territoriale” e le sue applicazioni nei diversi casi trattati. Tre temi collegati, perché, secondo l’approccio territorialista, la società locale è potenzialmente il soggetto della partecipazione, ma spesso sono forme innovative e alternative di partecipazione a fare società locale; infine, senza un riconoscimento sociale che lo concettualizzi e lo gestisca come tale, il patrimonio territoriale rimane pura potenzialità. Illustrando i tre temi trasversali, vorrei evidenziare i nodi critici cui ho fatto cenno, impegnativi non solo per gli autori, ma anche per i lettori. Il libro è infatti una sfida ad andare avanti, a non fermarsi ai risultati raggiunti (più importanti nel farsi piuttosto che nel fatto); a valutare i paradigmi della scuola territorialista non in modo ideologico, ma, come si suole dire, “mangiando il budino”(5) e decidendo così sulla sua bontà o meno.
Il primo tema, uno dei più trattati da punto di vista teorico ed esperienziale nel libro, è la “partecipazione”(6); che tanto più viene istituzionalizzata, tanto più rischia di trasformarsi in una formula logora, utilizzata per la ricerca di consenso, circoscritta in assemblee rituali o nei comunicati dei garanti dell’informazione. Partecipare, secondo gli autori, significa non solo cambiare le cose, ma anche comprendersi e cambiare se stessi. Qui (Carlo Cellamare) la partecipazione viene declinata come autorganizzazione di movimenti spontanei, nati come risposta o reazione a peculiari criticità, con ruoli sia difensivi che propositivi; autorganizzazione che mira ad andare oltre ai problemi specifici, a incidere sul contesto di cui le criticità sono la punta dell’iceberg, a partire dal lavoro e dalla sfera economica.
Cambiare per cambiare se stessi; ciò vale sia a livello urbano sia a livello territoriale, dove alcune esperienze (Angela Barbanente, Albero Ziparo) hanno visto nella costruzione di laboratori locali lo strumento per fare crescere la consapevolezza dei cittadini rispetto all’esistenza e alla qualità del “loro” patrimonio territoriale, finora rimasto allo stato di pura potenzialità. Nella stessa prospettiva, anche i “contratti” tra attori sociali e istituzioni (Daniela Poli) costituiscono un risultato importante del progetto “il parco agricolo perifluviale dell’Arno”. Forme pattizie e laboratori sociali possono essere più importanti degli esiti quando la partecipazione mira non tanto o soltanto ad essere uno strumento del progetto, ma un mezzo per fare comunità locale. Ciò, tuttavia, non è né scontato, né facile: correttamente, Anna Marson pone i rapporti tra progetto territoriale e comunità locale in senso problematico: “l’identità è una chance, la comunità un costrutto sociale”(7).
Quest’ultima considerazione introduce il nodo critico del secondo tema trasversale: vale a dire che non si può dare per scontato il protagonismo delle comunità locali – sia quelle storiche, sia quelle da riattualizzare o da costruire – nel riconoscimento, e nella valorizzazione del patrimonio territoriale. Da un punto di vista storico, è vero che i processi di territorializzazione hanno avuto come protagoniste delle comunità o delle società locali, quando questi sono avvenuti in un lento e ininterrotto bricolage. Ma, diversamente, le grandi imprese di territorializzazione, di carattere sincronico, hanno avuto alla base l’esercizio di un potere, a volte dispotico. Si pensi alla centuriazione romana, una formidabile opera di razionalizzazione delle terre, in non pochi casi campagne già coltivate da piccole comunità locali, che venivano espropriate a favore dei soldati congedati. Il lamento di Melibeo nella prima Egloga delle Bucoliche di Virgilio è fin troppo noto (8).
Per ciò che riguarda la contemporaneità, cioè quali siano i connotati attuali di una “società locale”, propongo, fuori dalle testimonianze del libro, un esempio significativo: ciò che accade in un comprensorio dominato dalle montagne Apuane, un territorio tra i più ricchi da un punto di vista patrimoniale. Qui vi è un blocco di interessi, fatto dagli imprenditori del marmo, dai loro dipendenti, dai sindacati, nonché da un mondo variegato in qualche modo collegato, forte politicamente; questo blocco di interessi è intenzionato a proseguire lo sfruttamento selvaggio e senza regole della risorsa marmifera e si oppone, non solo alla chiusura delle cave più distruttive, ma anche al tentativo di regolare l’escavazione come stabilito dal Piano Paesaggistico, le cui norme vengono distorte con interpretazioni capziose o ignorate. D’altra parte vi è una cittadinanza attiva, promossa dal movimento “Salviamo le Apuane”, che in molti modi, spesso fantasiosi, si oppone allo sfruttamento selvaggio del marmo; che ha elaborato, insieme ad altri soggetti attivi nel territorio, un progetto, basato su un’accorta utilizzazione e valorizzazione delle risorse locali, in grado di promuovere un’economia alternativa, sostenibile, capace di assicurare una maggiore occupazione; riducendo l’escavazione solo a quella dei blocchi di marmo destinati a usi scultorei o di pregio.
La società apuana è perciò divisa in un coagulo di interessi refrattario a ogni regola e in un’alleanza progressiva di comitati ed enti locali (non a caso quelli in cui le cave sono assenti o quasi). Il patrimonio del comprensorio apuano, centrato sui giacimenti marmiferi e sulle meravigliose montagne, ricco di un contesto naturale e antropico di eccezione, è una questione che riguarda una popolazione divisa al proprio interno, di cui una parte consistente è connotata in modo regressivo? O è un patrimonio dell’intera umanità? Rapporti virtuosi tra società locale e patrimonio territoriale non possono, perciò, essere dati per scontati né generalizzati; versioni ottimistiche sull’esistenza e sulla natura di comunità locali attive o attivate nel progetto territoriale, rischiano talvolta di non essere realistiche.
Infine, vi è il terzo nodo critico, in parte già anticipato e collegato ai due precedenti, il concetto di patrimonio territoriale che nel Piano Paesaggistico della Puglia, in quello della Toscana e nella legge urbanistica toscana è definito come “strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, di cui è riconosciuto il valore per le generazioni presenti e future”(9). Si tratta di un paradigma “strutturale”, di natura storico-geografica (10), utilizzato anche in molti progetti di natura paesaggistica, che a volta esplicitamente, a volte in filigrana, viene ripreso da alcuni autori nel libro.
Di nuovo, il comprensorio Apuano è un buon banco di prova. Qui è evidente che il paradigma strutturale coglie solo in parte la peculiarità del luogo, né dà conto dell’importanza del patrimonio-risorsa marmo. Dovremmo, piuttosto, mettere al centro del patrimonio territoriale apuano, l’esistenza e il funzionamento di un complesso ecosistema di natura carsica, basato sulla accorta escavazione e utilizzazione del marmo da parte delle passate generazioni e sulla produzione e distribuzione degli acquiferi che, a loro volta, formano diverse configurazioni territoriali in relazione alle caratteristiche dei territori attraversati. Purtroppo sono proprio le generazioni presenti, quelle dotate di maggiori poteri tecnologici, a non riconoscere il valore di esistenza del patrimonio territoriale apuano, visto solamente come “risorsa marmo”, o peggio, “carbonato di calcio”, da sfruttare senza considerazione delle generazioni future.
Se applichiamo lo stesso paradigma strutturale al territorio del Chianti o a qualsiasi altro paesaggio agricolo fortemente antropizzato, ma che tuttavia ha ancora ben conservato alcune regole costitutive, di nuovo è necessaria una concettualizzazione più aderente alla realtà dei luoghi. È vero che nel Chianti l’ossatura paesaggistica (quindi anche patrimoniale) è costituita da strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, ma questa definizione riguarda solo alcuni aspetti, anche se fondamentali, del suo patrimonio territoriale. Non, ad esempio, una discreta biodiversità data dall’alternanza di vigneti, oliveti e zone boschive. Non la vocazione antichissima alla coltivazione del vitigno sangiovese, che qui esprime una qualità di eccellenza. Non la diffusa capacità a fare del buon vino. Non una consapevolezza che in molti casi apprezza e difende il paesaggio. Vi è, quindi, una cultura condivisa che in qualche modo e sotto certi aspetti fa anche “comunità locale” e che, tuttavia, ha manifestato comportamenti di chiusura e di ottuso conservatorismo rispetto ad alcune raccomandazioni – logiche e assolutamente condivisibili – del Piano Paesaggistico.
Ripetendo lo stesso tipo di operazione per diversi contesti e diversi progetti territoriali, è facile rendersi conto che non solo la peculiarità dei luoghi definisce tipologie di patrimoni territoriali diverse tra loro, proprio perché caratterizzate dai luoghi stessi, ma interviene come fattore condizionante anche la scala del progetto o della pianificazione. Perciò una legge o un piano che riguarda l’intera Toscana non può fare a meno di definire sinteticamente il concetto di patrimonio territoriale e probabilmente, a questa scala e nei limiti imposti dalla norma, sono le componenti strutturali del territorio a dover essere evidenziate. A scale maggiori e in singoli sistemi territoriali, predomina invece la specificità e individualità di ciascun luogo, da un punto di vista fisico, ma anche sociale e culturale.
Una prima, provvisoria, conclusione: il paradigma “patrimonio territoriale” ha un valore euristico, piuttosto che definitorio (tanto meno definitivo), e i suoi caratteri variano da luogo a luogo, in accordo con l’idea del progetto del territorio come progetto locale. Sbagliato applicare in modo deduttivo una definizione generale a singole realtà. Specifici patrimoni territoriali di specifici territori possono essere individuati solo mediante una ricostruzione storica (che arrivi alla contemporaneità) delle azioni territorializzanti; ma non solo: ad esempio, il patrimonio marmo non dipende da operazioni umane, ma dalla sua scoperta e utilizzazione da parte di singole società e civilizzazioni (per cui, probabilmente, non era considerato patrimonio dagli Etruschi a differenza dei giacimenti di ferro, mentre era considerato tale dai Romani). Specifiche società che si sono succedute nel tempo costruiscono, perciò, patrimoni territoriali legati ai luoghi, mediante azioni territorializzanti o mediante il riconoscimento di realtà fisiche esistenti come patrimoni.
Partecipazione, società e comunità locale, patrimonio territoriale, sono perciò i nodi critici, a mio avviso più importanti, che il libro approfondisce e propone come sfida al lettore. Quanto ai risultati delle esperienze territorialiste finora intraprese non mi rimane che ripetere quanto scrive Alberto Magnaghi a conclusione della sua bella post-fazione. “In generale si può rilevare una forte asimmetria culturale e politica fra crescita (diffusa) delle proposte di innovazione emergenti dalle esperienze della cittadinanza attiva nel territorio e cambiamenti (modesti) nelle forme di pianificazione e degli istituti di governo del territorio; tuttavia la pars costruens contenuta nei saggi di questo libro dimostra che il contributo territorialista a nuove frontiere e campi della pianificazione, che procedono dal riconoscimento del protagonismo degli attori socio-territoriali, sta incidendo in situazioni non solo di nicchia, ma aperte alla loro diffusione”.